Il bisogno di tornare in scena

Il teatro soffre, perché è relazione viva tra chi agisce e chi assiste. Non può essere virtuale, deve accadere. Per questo ne abbiamo bisogno. Soprattutto in questo tempo

Poche settimane fa nel centro di Tirana è stato abbattuto il più importante teatro del paese, il Teatri Kombëtar, costruito durante il fascismo, diventato Teatro nazionale. È stato abbattuto nell’ottica di una modernizzazione accelerata che sta cambiando il volto della capitale albanese. Ci sono state polemiche per questa decisione del governo, ma quello che più mi ha colpito, conoscendo molti immigrati, oltre all’indignazione è il dolore per vedersi strappare qualcosa che apparteneva alla propria storia e identità.

È un episodio che riporta all’attenzione quello che sta accadendo al teatro in Italia. Qui non siamo evidentemente di fronte al rischio di demolizione di edifici, ma semmai dell’impossibilità di viverli. Certamente il teatro tra tutte le forme di espressione culturale è quella che più soffre le limitazioni imposte dal coronavirus. Soffre come tutti gli alti settori per il crollo delle produzioni, per la perdita di posti di lavoro e di opportunità professionale. Ma soffre più di tutti gli altri settori per l’impossibilità di mettere in atto il proprio status: quello di essere una forma espressiva che implica una relazione viva tra chi agisce e chi assiste.

Il teatro ha proprio questo di unico: esiste in presa diretta. È cultura che si fa corpo, nel senso più letterale e concreto del termine. Nel teatro non c’è smart working o zoom che tenga. O si fa presenza o non è. Ebbene, una società può permettersi di veder scivolare via dalle scene questa forma che è stata al centro della storia umana nelle tante modalità con cui ha saputo reinventarsi e proporsi?

Come la vicenda albanese ci indica, il teatro tra tutte le forme culturali è quella di cui una società non può davvero fare a meno. È qualcosa che riguarda la vita di ciascuno in questo giocarsi nella relazione fisica tra chi lo fa e chi lo guarda. Non è solo un contenitore di discorsi più o meno buoni, più o meno geniali (anche se tante volte è stato ridotto a questo). È innanzitutto esperienza che ci ribadisce l’irriducibilità dell’espressività umana nella sua dimensione fisica, reale, non mediata.

L’energia del teatro è una dimensione che pervade la vita al di là del teatro inteso come istituzione. Lo si vede nelle scuole, tra i ragazzi; lo si vede in ambito amatoriale; lo si rintraccia nei residui di ritualità che ancora segnano la vita collettiva. Il teatro è un bisogno e insieme una forma di libertà (perché il palco è per statuto uno spazio di libertà).

Per questo difendere oggi il teatro nella sua forma organizzata e istituzionale, pur con tutti i suoi limiti, è difendere un qualcosa che sta al cuore della vita di tutti. E per questo siamo ben contenti di ascoltare stasera Giacomo Poretti salire sul palco minimo (metafora della situazione attuale) della sua Apecar e incarnare la storia marginale e straordinaria di Oreste Fernando Nannetti, un recluso dell’ospedale psichiatrico di Volterra, che nell’arco di anni durante l’ora d’aria coprì 180 metri di muri con graffiti realizzati con il solo strumento che aveva a disposizione: la fibbia della cintura. E noi, grazie al teatro, potremo non solo conoscere, ma farci toccare dalla sua storia.

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