Hopper, il nuovo anno e la gioia della luce

Edward Hopper è il pittore dell’anno: per lui c’è una “gioia” nel “dipingere la luce” come tensione e desiderio. Ecco perché siamo tutti “suoi quadri”

L’anno che si chiude ha avuto indubbiamente un artista-icona: è Edward Hopper. Le sue opere sono state le più usate sui social, come specchio della condizione vissuta con i lockdown. “We are all Edward Hopper paintings now”, aveva scritto Jonathan Jones sul quotidiano Guardian nel marzo scorso. Non siamo tutti “come nei suoi quadri”, ma siamo tutti “suoi quadri”: la differenza sembra minima, ma è sostanziale.

Proviamo a ragionare. Quando ci si mette davanti a qualche opera di Hopper ci sono due atteggiamenti possibili. Il primo è il più facile e “pigro”, ed è quello di riconoscere e specchiarsi in una sorta di intimismo. Si è soli, tagliati dal mondo, chiusi in un microcosmo vagamente triste che è quello del proprio privato. È l’Hopper trasformato in testimonial di una solitudine subita e accettata come dimensione tutta richiusa su se stessa; testimonial di un’incomunicabilità esteticamente trasfigurata e vissuta anche come un vezzo elegante. Ci si sente “come nei suoi quadri” quasi per darci un alibi rispetto all’incapacità o alla non volontà di sfondare le pareti che ci tengono fisicamente chiusi.

Se Hopper fosse questo, così “remissivo”, sarebbe davvero un pittore molto poco interessante. Invece Hopper è qualcosa di molto diverso, e questo ne spiega sia il fascino che la grandezza.

Proviamo a smontare la struttura dei suoi quadri: quando dipinge i suoi celebri interni, incardina le composizioni attorno ad un elemento costante, che nella maggior parte dei casi è una finestra, ma che può essere una porta, una soglia. Il dentro di Hopper vive dunque sempre in rapporto costitutivo con un fuori, con un oltre che dà sostanza a quel dentro. Nella maggior parte dei casi la forma con cui il fuori si palesa è quella della luce. La luce del sole che dal suo studio di Cape Cod, affacciato sull’Atlantico, vedeva sorgere e alzarsi da est.

La luce conquista sempre anche lo sguardo di chi abita i suoi interni: nessuno si sofferma su se stesso o sulla propria condizione. Tutti i suoi “inquilini” sono attratti da quella energia che viene da fuori e di cui Hopper non ci svela mai l’origine (“la cosa più importante di un quadro è quella che non si può definire”, diceva). Sono dentro i loro spazi domestici, ma esistenzialmente sono tutti tesi al di là dei muri che li circondano. Si sporgono, con lo sguardo o anche fisicamente.

Se ascoltiamo quel che Hopper in più casi ha testimoniato, si può anche supporre che siano tutte varianti di autoritratti. Ce ne ha dato lui stesso un indizio quando ha spiegato che c’è “una sorta di gioia” per lui come artista ed è quella di “dipingere la luce del sole sul secondo piano di una casa”. È la gioia inseguita ogni istante che lo ha mosso a dipingere per tutta la vita, senza mai cercare altri effetti speciali, stando sempre dentro una disciplina quasi monacale. La tensione verso questa gioia intercettata è ciò che riempie la pittura di Hopper.

Per questo essere “tutti suoi quadri” significa sintonizzarsi con questo desiderio. Che è il miglior augurio che possiamo farci per l’anno che inizia.

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