Alle prese con l’ondata Omicron della pandemia da Coronavirus, di due cose fondamentalmente ci occupiamo e ci preoccupiamo: di riuscire a farla franca (credendo al vaccino) e di preservare il più possibile l’agibilità di spazi di vita e di lavoro. Tutto ciò è di per sé un desiderio più che normale: si tratta di due fattori che percepiamo come irrinunciabili per il nostro ben-essere: la salute e la libertà. Ed è giusto lavorarci, discuterne, trovare soluzioni corrette e sostenibili.
Ma è tutto qui? Parrebbe di sì, a giudicare dalla quantità smisurata di pagine di giornali e di ore di talk show televisivi che vi si dedicano quotidianamente. Invece non è vero che è “tutto qui”: mentre ci preoccupiamo assai degli spazi fisici, non ci accorgiamo di rischiare un restringimento dei nostri spazi mentali, del nostro sguardo alla realtà, e quindi della nostra consapevolezza, perché la coscienza dell’uomo si plasma specchiandosi in quello cui guarda. Per dirla in soldoni: siamo indotti a non occuparci di altro che di Covid. Complice certamente l’informazione, malata di “infodemia” e non molto interessata alle dinamiche del potere politico e generalmente molto poco interessata alle società e ai popoli.
Fateci caso: sempre più raramente appaiono voci di intellettuali che riflettano sulle grandi domande e sui significati umani e culturali che la pandemia impone, e questo è un restringimento della profondità di campo. Tra Covid e Quirinale si traguarda la metà di un quotidiano o di un telegiornale, la cronaca e gli esteri sono generalmente ridotti al minimo sindacale. E questo è un restringimento dell’ampiezza di orizzonte.
Ci sono ovviamente delle eccezioni: singoli bravi inviati e corrispondenti e due testate storiche come il Manifesto e Avvenire. L’uno con lontane radici nell’internazionalismo comunista, che bene o male portava all’attenzione degli occidentali i problemi sociali e i movimenti di liberazione nazionali di tantissimi Paesi del mondo; l’altro con radicamento nella realtà cattolica (che come noto vuol dire universale) guidata da pontefici che dalla Populorum progressio di Paolo VI – per stare al post-Concilio – alla Fratelli tutti di papa Francesco non ha mai cessato di interessarsi delle sorti dei popoli.
Comunque la si pensi su comunismo e cristianesimo, bisogna riconoscere che essi hanno coltivato un motivo ideale in grado di interessare tante persone a un orizzonte ampio di conoscenza e di partecipazione. L’età del capitalismo globale ha spento questo interesse verosimilmente perché ha dilavato i motivi ideali o nel mondialismo spesso ipocrita delle élite e nei populismi spesso beceri delle classi basse.
Se al principio della conoscenza c’è la meraviglia (e ipse dixit, cioè l’ha detto e messo per iscritto proprio Aristotele), conviene uscire dal lockdown dello sguardo, buttare l’occhio in giro e imbattersi in qualcosa che ci desti meraviglia, e quindi interesse alla conoscenza, che è sempre affettiva, e alla partecipazione.
La Campagna Tende dell’Avsi, Associazione di volontari per lo sviluppo internazionale, può essere un’opportunità del genere. Attiva da 50 anni, Avsi realizza in una quarantina di Paesi del mondo progetti e opere di educazione, preparazione al lavoro o sostegno economico e umanitario, con il coinvolgimento diretto di persone e realtà locali. Proponendone cinque o sei ogni anno all’attenzione pubblica, permette di conoscere e di interessarsi alle condizioni e ai problemi di tanti popoli da punto di vista di chi vive immerso in quelle situazioni e sa riconoscere e raccontare non tanto le dinamiche del potere (che non sono affatto le uniche protagoniste della storia) quanto la realtà umana e sociale, e le vie e i tentativi per il suo progresso e la sua elevazione. Dove non c’è chi dona dall’alto e chi riceve, ma l’essere insieme condividendo bisogni – la profondità del bisogno – desideri e operosità. Quest’anno i Paesi sono Haiti, Uganda, America latina (Messico, Brasile, Ecuador), Libano, Italia. Negli scorsi anni Cameron, Burundi, Iraq, Kenya, Venezuela e molti altri ancora.
Notare che nell’elenco c’è anche l’Italia: il fatto è che non siamo terzomondisti, siamo tutti sulla stessa barca.
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