Quei Draghi-bond per il Recovery

Draghi all'ultimo Consiglio europeo ha evidenziato la necessità di arrivare a una politica fiscale comune e all'emissione di eurobond

A due mesi dall’inizio del suo impegno di premier di unità nazionale, Mario Draghi ha già dato ampia conferma del suo stile di governo: votato ad affrontare i problemi reali in tempo reale senza esitazioni o tentazioni di rinvio. E senza timore di partire dalle questioni più complesse: che quando sono basilari sono anche le più urgenti.

L”ultimo Consiglio Ue aveva in agenda la situazione dell’emergenza-Covid, in particolare la crisi della campagna vaccinale. Draghi – che fin dal suo primo giorno a Palazzo Chigi ha preso a scuotere un’Europa ferma e spaesata – è stato protagonista del confronto. Ha nuovamente sollecitato i capi di Stato e di governo Ue e la Commissione di Bruxelles ad aumentare la pressione sulle grandi case farmaceutiche internazionali (è stato Draghi a indirizzare ispettori Ue in uno stabilimento italiano, accertando la presenza di 29 milioni di dosi di vaccino).

Prima che la videoconferenza fra i 27 terminasse, il premier italiano ha però trovato il tempo di assegnare uno specifico compito a casa ai colleghi: “È necessario dotarci di una politica fiscale comune e di un titolo comune europeo”. Gli eurobond non sono meno urgenti delle fiale. Senza eurobond il Recovery Plan – la cui logica finanziaria prevede “titoli comuni”, ma quella politica impedisce ancora di nominarli in chiaro – la strategia di uscita economica dalla pandemia rischia di partire monca e compromessa.

Troppa fretta da parte dell’ex Presidente della Bce? Per la Germania, certamente, non è mai tempo di parlare di mutualizzazione del debito Ue (così come per la Bundesbank  non sarebbe mai stato tempo di politica monetaria espansiva dell’euro, in tandem con la Fed). Meno che mai Berlino vorrebbe parlarne a sei mesi dalle elezioni politiche interne che dovranno decidere quali forze governeranno il Paese, con quale successore di Angela Merkel alla cancelleria. Però appena un anno fa – quando già il Covid era alle porte dell’Europa – erano state Germania e Francia ad aprire formalmente una fase biennale di ricostruzione complessiva della governance economico-finanziaria dell’Ue.

La pandemia ha fermato tutto sul piano istituzionale, ma non ha impedito a Draghi – nel suo “sabbatico” dopo otto anni a Francoforte – di suggerire da subito precise misure di contrasto ai contraccolpi recessivi della pandemia. E il Consiglio Ue dello scorso luglio – per l’ultima volta sotto la leadership di Merkel – non ha potuto non tenerne conto. E il Recovery Fund, in ultima analisi, nasce come veicolo innovativo di una decisione politica di superamento degli Accordi di Maastricht. Il finanziamento strutturato degli aiuti per la ripresa (e per lo sviluppo della transizione digitale e green) è stato voluto coralmente dai 27, che si indebiteranno in comune: è impossibile contraddire il contenuto della risoluzione.

Il “compito a casa” in parte realizzato nel Recovery in condizioni eccezionali era stato assegnato dallo stesso Draghi nei panni di banchiere centrale dell’euro. Dopo aver salvato l’unione monetaria  nel 2012 – con il whatever it takes in occasione della crisi bancaria spagnola – aveva sollecitato per primo l’unione bancaria: realizzandola rapidamente sotto l’ala della Bce. Da allora ha fatto whatever gli è stato consentito sul piano della politica monetaria, affermando a ogni consiglio della banca, in ogni conferenza universitaria, in ogni intervista che la Bce stava supplendo all’assenza di una politica fiscale comune. Lo ha ripetuto nel 2015, quando l’Ue a trazione tedesca impose alla Grecia una ristrutturazione finanziaria più attenta al rispetto formale dei parametri che alle reali esigenze di risanamento e ripresa di un Paese dell’Unione.

Dieci anni dopo l’austerity prescritta all’Italia, sono rimasti pochissimi a credere che quella fosse la terapia economica corretta: tanto che oggi Draghi si ritrova a dover affrontare in termini aggravati il nodo del debito pubblico nazionale non solo per la debolezza della politica italiana, ma anche per l’assenza di una politica fiscale europea. Per questo – da Premier – ha deciso di “far fretta” ai leader corresponsabili sul piano politico di un’Europa che deve superare ogni riduzionismo tecnocratico.

A Roma Draghi ha già annunciato – insediandosi com Premier – che entro l’anno arriveranno le prime linee di una riforma fiscale che avrà fra i suoi obiettivi anche la stabilizzazione delle finanze pubbliche nazionali entro un nuovo quadro di regole Ue. Ma si può star certi che in ogni Consiglio Ue e in ogni bilaterale europeo non mancherà mai di verificare a che punto è l’elaborazione della nuova governance fiscale europea. Quando saranno emessi i primi Draghi-bond?

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