La scuola al Sud tra voragine e narrazione

Nel 2020 l'abbandono scolastico nel solo Mezzogiorno è aumentato del 62%. Servirebbe un esercito di assistenti sociali

Quanto tempo dura una notizia? Domanda difficile, che però mi è venuta spontanea leggendo il corposo articolo che ieri il Corriere della Sera ha dedicato ad un’importante ricerca di Save The Children. Da una indagine condotta dalla famosa organizzazione che si occupa dei più giovani, è emerso un divario enorme tra le giornate di scuola perse dai ragazzi del Sud rispetto ai loro coetanei del Centro-Nord. Goffredo Buccini ha però omesso di dire che la ricerca a cui si è riferito risale ad oltre due mesi fa. Era grosso modo metà marzo quando noi del Sussidiario l’abbiamo rilanciata e commentata con un certo risalto.

Ricordo, per sommi capi, i risultati di quella ricerca. In un contesto mondiale drammatico – 112 miliardi di giornate di scuole perse nel corso del 2020, 1 punto e mezzo in meno di Pil che peserà sull’economia mondiale per i prossimi 20 anni – Save the Children ha rilevato, studiando i dati di 8 città italiane, che anche qui da noi le cose non sono andate ovunque allo stesso modo. Al Sud si sono perse molte più giornate, a testimonianza che l’obiettivo del rientro in classe non è stato considerato una priorità allo stesso modo a Milano o a Napoli. Il dato inoltre va letto in un quadro dove il divario tra Nord e Sud si è molto aggravato in questi ultimi anni. Tutti gli indicatori sono peggiorati, e leggendo quei dati possiamo solo essere preoccupati per il futuro: dobbiamo temere una deflagrazione del sistema, che rischia di esplodere appena la pandemia sarà finita.

Non c’è dunque da parte nostra nessun intento polemico. Vogliamo solo far notare come una notizia così importante, che riguarda il futuro della scuola nel nostro paese, sia stata considerata dal più importante giornale del Nord come una notizia da usare, diciamo così, con comodo. È come se – volendo ragionare per eccesso – stamane il Corriere avesse aperto la sua prima pagina parlando della zona rossa di Bologna, dell’ok dell’Ema al vaccino AstraZeneca e della prima serata del Festival di Sanremo, che erano le notizie più importanti di quel 2 marzo. Insomma voglio solo dire che la scuola, e in particolare lo stato della scuola nel nostro Mezzogiorno, continua ad essere una notizia relegata a debita distanza nello spazio e nel tempo. E questa è una responsabilità enorme delle classi dirigenti del nostro Paese.

Ad esempio l’altro ieri la cronaca napoletana della Repubblica riportava, in fondo ad una pagina interna, una notizia forse ancora più clamorosa di quella emersa dall’inchiesta di Save the Children. La procuratrice dei Minori di Napoli Maria De Luzenberger durante una audizione alla commissione Politiche sociali del consiglio regionale ha dichiarato che nel solo 2020 sono aumentate del 62% le segnalazioni di abbandono scolastico. Il numero in crescita esponenziale riguarda soprattutto i bambini della scuola primaria, mentre in genere la dispersione colpisce di norma i ragazzi più grandi. Il problema riguarda in particolare i piccoli comuni, quelli più poveri, della provincia di Napoli e di Caserta. La procuratrice ha poi concluso il suo intervento dicendo che “tutti i ragazzi che vediamo nelle nostre aule di tribunale hanno alle spalle l’abbandono scolastico. Il nostro intervento è repressivo mentre occorrerebbe un esercito di assistenti sociali”.

Mi sembra evidente che le due notizie sono l’una conseguenza dell’altra. Nell’anno terribile che abbiamo alle spalle si è aperta una voragine, in questo enorme buco stiamo perdendo un’intera generazione. Ancora una volta dobbiamo ricordare che la scuola nel Mezzogiorno ha svolto in passato un ruolo di supplenza, cercando di sopperire a tante altre carenze e deficienze, dalla difficoltà delle famiglie fino alle debolezze dei nostri comuni, a cominciare dall’assenza di quello che la procuratrice chiama “l’esercito di assistenti sociali”. Il venir meno di questo suo ruolo centrale può determinare il collasso, politico e sociale.

Vi è stata in questi mesi una responsabilità pesante delle classi dirigenti meridionali nella gestione della pandemia. Si è preferito assecondare le spinte più emotive piuttosto che affrontare i nodi storici. Abbiamo perso mesi a discutere di quando aprire o chiudere i ristoranti, come avvantaggiare qualche categoria nella distribuzione dei ristori e non abbiamo visto il dramma della parte più povera della società che rinunciava addirittura alla scuola per i propri figli. Abbiamo assistito inermi a chi scavalcava la fila e all’uso clientelare dei vaccini – tale è la situazione al Sud, e lo scopriremo presto – mentre si rinunciava di fatto a condurre uno sforzo per stare vicini alla parte più debole ed esposta.

Ritorna il tema di un limite di fondo sul modo come ci raccontiamo il Mezzogiorno. Sembra quasi che ci sia una remora culturale, un timore, a dire le cose come stanno, ad usare le parole giuste. Sembra che si preferisca nascondere i problemi. È più semplice assecondare piuttosto che combattere. La rinuncia a dare il giusto valore alla realtà dei dati alimenta il vizio di banalizzare i problemi.

La pandemia ha svolto in questo anno e mezzo il ruolo di una safety car. Ha rallentato le economie – quelle più forti e quelle più deboli – accorciando le distanze e costringendo tutti ad andare più piano. Ma ora che la corsa sta per riprendere il rischio è che il divario si riprodurrà quasi immediatamente, lasciando indietro chi non ha usato questi mesi per ripensare in termini nuovi al proprio futuro.

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