Continuare a farci domande

- Emilia Guarnieri

La nostra vulnerabilità fa paura, spesso non la accettiamo e questo genera violenza. Ma davanti a un perdono o un abbraccio immeritato il cuore cambia lo sguardo sulla realtà

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Pablo Picasso, L'abbraccio (particolare) (1900)

“La paura che mi prende parte dal profondo di me come un fuoco che si accende e brucia piano l’anima”. Lo cantava Enrico Ruggeri in quel brano “Come lacrime nella pioggia”, giusto un anno prima che scoppiasse la pandemia. Quella paura, che oggi tanto acutamente avvertiamo, non è nata nel marzo del 2020, non è figlia né del virus né del lockdown. Viene da molto più lontano. Ma è pur vero che in questo ultimo anno e mezzo, più frequentemente che in altri tempi, ci siamo ritrovati impauriti davanti alla realtà.

Al recente Meeting di Rimini, don Julian Carron, nell’incontro dal titolo “Vivere senza paura nell’età dell’incertezza”, affermava che “la paura ci assale quando la realtà mette a nudo la nostra essenziale impotenza. Quando ci troviamo davanti una situazione che ci sfida oltre le nostre capacità, emerge alla nostra coscienza la paura”.

L’impotenza drammaticamente sperimentata davanti a un virus sconosciuto, incontenibile, mortale ha realmente messo a nudo la nostra strutturale fragilità. Sempre nel recente Meeting il regista Pupi Avati aveva concluso il suo intervento con una originale apologia della vulnerabilità: “la vulnerabilità è la qualità dell’uomo più alta, più nobile, più preziosa”. Qualità tanto evidente quanto difficile da accettare!   Se guardiamo la nostra esperienza, dobbiamo constatare che spesso è proprio questa vulnerabilità ad impaurirci, a metterci addosso quella ribellione e quel fastidio che proviamo davanti al sogno infranto della nostra onnipotenza.

E allora siamo capaci anche di diventare violenti. Violenti nei giudizi, quando non nelle azioni e nei gesti. Non tolleriamo il diverso, che sia l’immigrato o un qualunque essere umano di altra etnia, colore o religione. Possiamo anche accettare che esista, ma a condizione che resti ben lontano da noi. Rifiutiamo la malattia e la sofferenza, nostra ma anche di chi ci è vicino. Forse, potremmo anche arrivare a pensare che l’eutanasia, in certi casi, non sarebbe poi un gran male. Non possiamo arrenderci al fatto che la crisi ecologica ed ambientale che il pianeta sta vivendo possa richiedere anche a noi sacrifici e cambiamenti nello stile di vita. Stentiamo a uscire dall’egoismo e dall’individualismo, insofferenti a ogni invito alla corresponsabilità o alla solidarietà. Anche in politica spesso ci piace di più la violenza verbale espressa dalla “nostra” parte che la fatica del dialogo e della costruzione comune.

Viviamo in uno strano paradosso. Pronti, giustamente, a provare sgomento e dolore davanti agli episodi di violenza più gravi, le risse tra baby gang, i delitti in famiglia, gli omicidi commessi senza motivo in un accesso d’ira o di assurda prepotenza. Senza accorgerci che ogni violenza, tanto quella cruenta che fa notizia, quanto quella piccola e quotidiana con la quale conviviamo, nasce dal tentativo di “togliere di mezzo” qualche pezzo di realtà che ci infastidisce o ci fa paura.

Ma (ecco il paradosso) quando ci capita di imbatterci in gesti di accoglienza, quando noi stessi siamo oggetto di perdono o di un abbraccio immeritato, quando vediamo persone capaci di lavorare con passione (a ogni livello) per un bene condiviso e non solo per il proprio interesse, allora può accadere che il cuore si riaccenda e cambi lo sguardo sulla realtà, anche su quella che ci impauriva e dalla quale volevamo solo sfuggire. Può succedere che l’eliminazione di ciò che ci spaventa non appaia più come l’unica soluzione possibile. Vedendola in un altro, può accadere anche a noi di sperimentare quella imprevista quanto ragionevole stima verso la realtà, non più nemica ma portatrice di nuove opportunità. E può accendersi la scintilla di nuovi percorsi da intraprendere.

Commuove rileggere oggi quanto nel marzo del 2020, con lo sguardo rivolto al futuro, scriveva su Repubblica lo scrittore israeliano David Grossman: “La presa di coscienza della fragilità e della caducità della vita spronerà uomini e donne a fissare nuove priorità. Ci sarà chi si sentirà nauseato e fulminato dalla banale ingenua consapevolezza che è terribile che ci sia gente molto ricca e tanta altra molto povera. Facciamo parte del medesimo tessuto umano e il bene di ciascuno di noi è quello di tutti. Il bene del globo su cui viviamo è anche il nostro”.

Possiamo solo augurarci che questo profetizzato cambiamento cominci a realizzarsi. Grossman alla fine del suo scritto sembra quasi suggerirne la strada: “continuare a farci domande”.

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