Pasolini, la fame di raccontarsi e la Grazia

Pasolini era un intellettuale anomalo, che aveva un gran bisogno di divorare la vita e di metterla in parola, raccontando e raccontandosi. Come mostrano le sue lettere

C’è un fattore numerico rivelatore che riguarda Pier Paolo Pasolini: ha vissuto poco, essendo morto a 53 anni, ma proporzionalmente ha scritto tantissimo. Ci sono voluti ben dieci volumi dei Meridiani Mondadori per raccogliere le sue opere, e sono neanche tutte.

In occasione del centenario (Pasolini era nato il 5 marzo 1922), Garzanti ha pubblicato la raccolta delle sue lettere, e sono quasi 1.500 pagine. Qualcuno ha calcolato che in media, nel periodo della sua vita attiva, Pasolini ha scritto quasi 50 pagine al giorno. È un dato che fa impressione e che rende l’idea di quale fame avesse di capire, di analizzare, di raccontare e di raccontarsi. Era un bisogno di divorare la vita e di metterla in parola.

Pasolini è intellettuale assolutamente anomalo proprio per questa sua incapacità di fare calcoli, di studiare strategie, di risparmiarsi. Le 50 pagine al giorno rappresentano l’evidenza di uno che si è dato e confessato per tutta la vita. Pasolini si mette sempre a nudo, senza temere di oltrepassare la soglia del ritegno e senza mai preoccuparsi delle ragioni di convenienza. In lui cade la parte che separa orizzonte privato e orizzonte pubblico: per lui ogni pagina è privata, in quanto mette in gioco l’intimità di se stesso, e insieme pubblica, in quanto per sua natura, cerca lo sguardo degli altri e chiama in causa il mondo.

Le lettere, in questo senso, sono spesso rivelatrici. Il 10 febbraio 1950 Pasolini ne aveva scritta una all’amica Silvana Mauri, dove esprime con sincerità i suoi dubbi rispetto a questa voracità di scrittura: «Io qualche volta – e in questi ultimi tempi spesso – sono gelido, “cattivo”, le mie parole “fanno male”. Non è un atteggiamento “maudit”, ma l’ossessionante bisogno di non ingannare gli altri, di sputar fuori ciò che anche sono… non mi è né mi sarà sempre possibile parlare con pudore di me: e mi sarà invece necessario spesso mettermi alla gogna, perché non voglio più ingannare nessuno».  Con l’amica Silvana aveva portato allo scoperto anche le ricadute della sua omosessualità: «Uno normale può rassegnarsi – la terribile parola – alla castità, alle occasioni perdute: ma in me la difficoltà dell’amare ha reso ossessionante il bisogno di amare». Ed è una confessione che sembra una profezia di quella terribile notte di Ostia…

La forza di Pasolini sta in questo suo mettersi di traverso, non per volontà, ma per destino. Si considerava una «cosa scomoda, urtante e inammissibile». Come aveva confessato in un’altra lettera famosa, scritta nel 1964 a don Giovanni Rossi, il fondatore della Pro Civitate Cristiana, che gli aveva fatto da prezioso consulente nella lavorazione del “Vangelo secondo Matteo”. «Io sono da sempre caduto da cavallo», scriveva Pasolini in quella lettera: «non sono mai stato spavaldamente in sella (come molti potenti della vita o molti miseri peccatori): sono caduto da sempre, e un mio piede è rimasto impigliato nella staffa, così che la mia corsa non è una cavalcata, ma un essere trascinato via, con il capo che sbatte sulla polvere e sulle pietre. Non posso né risalire sul cavallo degli Ebrei e dei Gentili, né cascare per sempre sulla terra di Dio».

Poi con molta umiltà, senza rinunciare alla sua consueta lucidità, Pasolini spiegava come la sua fosse una condizione che «solo la Grazia potrebbe sciogliere. La mia volontà e l’altrui sono impotenti». Tra i milioni di parole messe furentemente sulla carta nei suoi 53 anni di vita, questa scritta con la “G” maiuscola è una delle più rivelatrici…

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