Gaber, Jannacci, Testori: la forza della periferia

- Maurizio Vitali

Ci serve più periferia. Un altro modo di vedere le cose. Più autentico, più vero. Dove più facilmente ci si scopre mendicanti

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Giorgio Gaber ed Enzo Jannacci (LaPresse)

“Eh, la bologna… l’è la bologna”. Nella lingua italiana ci sarebbe voluta una complessa e stucchevole locuzione per esprimere veramente, carnalmente, la cosa. Tipo: “Possono dire quello che vogliono, si sottomettano pure alla moda di altri più ricercati appetizer per accompagnare l’aperitivo ma, siamo sinceri, vuoi mettere la mortadella? Genuina, fedele a se stessa, che provvidenzialmente si offre incontaminata ruspante vincitrice  sull’effimero nuovismo, lei veramente gustosamente corrispondente all’attesa del nostro palato, del nostro bisogno di gusto della vita”.

Autore dell’esclamazione è il mio vicino di banco, inteso come bancone, del Bar-cooperativa di Trecella, paesino dove milanese lo sei, “arioso” per la precisione, perché di provincia. Periferico.

Solo in dialetto milanese quella massima può essere detta in quel posto e trattandosi di vino e salume. Solo in dialetto, poi, appare degna della metafisica di un Parmenide, “l’essere è, il non essere non è”, presupposto ineludibile di ogni uso della ragione. Ma anche principio base per cogliere la profondità di un Pozzetto Ragazzo di campagna quando riconferma a se stesso e agli altri che “il treno è sempre il treno”.

Pozzetto è una forza della natura accompagnata al genio tragicomico di Enzo Jannacci, medico artista nato in periferia (“l’era ona ca’ veggia e per pissà tripli servizi sì, ma in mezz al praa”) e in periferia vissuto, lui come i suoi personaggi: l’Ortica, l’Idroscalo, Rogoredo, Baggio (anzi, per la precisione, dietro a Baggio), che se vanno al bar è quello di un locale cinese fuori mano, o una latteria dove lei ha il naso sporco di schiumetta della gazzosa. Del resto Pozzetto è venuto su nell’estrema periferia sud di Milano, la Baia del Re.

Giorgio Gaber, amicissimo (“un fratello”) di Jannacci, è un altro che il mondo ha cominciato a scoprirlo guardandolo dalla periferia: via Londonio, dove nacque, zona Sempione sì, ma allora periferia, e dal Giambellino, dove abitava all’epoca del Cerutti Gino ladro di Lambrette. Quando il Ragazzo della via Gluck (Celentano) lamenta la costruzione del grattacielo Pirelli “albero di trenta piani”, perché lì adesso non cresce più l’erba, Gaber risponde cantando di una giovane coppia cui hanno buttato giù la vecchia casa di periferia ad affitto accessibile, che ora non può sposarsi perché “cosa vuoi che se ne facciano del prato?”. Poi anche i movimenti della sinistra, cui si sentiva vicino, ha cominciato a guardarli dalla periferia intellettuale che è la voluta lontananza dal “centro focale” dell’ideologia, e criticarli anche aspramente.

E  poi Testori, il sommo Giovanni Testori, scrittore, poeta, autore di teatro, pittore, critico d’arte, giornalista. Un grandissimissimo del Novecento europeo, non solo italiano. Anche lui con le radici piantate nella periferia milanese, casa a Novate, vicino ai binari delle Ferrovie Nord: “quando ho detto – scrisse lui stesso – che sono nato nel 1923, a Novate, cioè a dire alla periferia di Milano, dove da allora ho sempre vissuto e dove spero di poter vivere sino alla fine, ho detto tutto”. Del resto tante storie raccontate nelle sue opere sono ambientate nei paraggi: la Gilda del Mac Mahon, il Fabbricone (che richiama il film Romanzo popolare di Monicelli con la jannacciana Vincenzina davanti alla fabbrica), Nebbia al Giambellino (zona Gaber), Il dio di Roserio, dio nel senso di idolo locale di ciclismo.

Qui torniamo alla bologna, e ai salumi. Perché il campione di ciclismo va in crisi in quella gara per via della coppa rimastagli sullo stomaco dalla sera prima. Tutte cose che nel quadrilatero meneghino della moda non è previsto che possano accadere. Nemmeno nella Roma di via Condotti.

Ecco, avevano ragione quei miei amici (assai più preparati del sottoscritto), con cui ho avuto la fortuna di conversare di queste cose in una cena non molto tempo fa.

Intanto saltava fuori che i tre – Jannacci, Gaber e Testori – sono uniti dagli anniversari che li riguardano, il che non sarà una cosa di sostanza, ma è pur sempre un’occasione per far mente locale e un passettino in conoscenza e presa di consapevolezza. Quest’anno ricorrono infatti il decennale della morte di Jannacci, il ventennale di quella di Gaber, il centenario della nascita di Testori.

Ma il legame più significativo fra i tre sta in quel sentire la vita che – a parere di quei miei amici, che mi sento di condividere – la parola periferia raccoglie. Periferia geografica, come suggerito nei brevi accenni fatti sopra. Ma, insieme, e più significativamente ancora, periferie esistenziali. Barboni con i scarp del tennis, prostitute, ladruncoli, spiantati bizzarri frequentatori di trani, bar e biliardi, drogati, come il testoriano Gino Riboldi di In exitu che muore in un cesso della Stazione Centrale di Milano. Ma anche, meno esasperatamente, operai che vanno a lavorare in bici salvo prendere il treno per non essere da meno agli occhi di una collega concupita, o le Vincenzine davanti alla fabbrica con il foulard che non si usa più e che sentono anche odor di pulito.

Ma che cos’è la periferia nel senso gaber-jannacci-testoriano? E perché ci interessa? Si potrebbe dire che essa è il luogo dove l’uomo fa i conti con se stesso, con i propri limiti, bisogni, aspirazioni, contraddizioni, anche violenza – Testori osa pronunciare la parola “peccato” – senza (o con meno) infingimenti, ipocrisie, edulcorazioni, perché l’esperienza brucia, scava, segna e la ferita chiede una carezza (Jannacci), anche solo “un piccolo bagliore” (Gaber), o – con parola definitiva, “redenzione” (Testori).

La periferia è anche il luogo dove la realtà è riconosciuta in tutta la sua rugosità, asprezza e anche la sua possibile positività e fecondità. “Basta amare la realtà, sempre, in tutti i modi, anche nel modo precipitoso e approssimativo che è stato il mio. Ma amarla. Per il resto non ci sono precetti” (Testori).

Le periferie operaie di Testori, Gaber e Jannacci degli anni 50 e 60 sono quelle in cui l’Italia è risorta dalle macerie materiali e morali della guerra per quel tanto di comune amorosa accoglienza operosa della realtà (che ha nome lavoro) che molti hanno vissuto. Prima che il consumismo divorasse l’autenticità. Prima che per tanti la bologna non fosse più la bologna e il treno non fosse più il treno. Ma sono anche le periferie di oggi. Dove la bologna è la bologna, e il desiderio è grido. Periferie geografiche ed esistenziali, dalle quali si capisce meglio la realtà: così papa Francesco.

Il punto di vista migliore per cogliere la realtà, normalmente, implica uno scartamento, una mossa del cavallo, un posizionarsi un po’ di fianco, disallineati, decentrati. Così si vedono cose che se stai in riga ti restano nascoste. Così mi descrisse il succo della comicità Giacomo Poretti in una intervista per Tracce. La buona comicità è disvelamento della realtà (e sputtanamento dell’apparenza). Conoscenza e umorismo si fondono spesso, vincendo preconcetti e rifiutando convenzioni e certamente si fondono nell’animo e nella lingua milanese.

La periferia, infine, è luogo dell’ironica alterità rispetto al potere e della messa in ridicolo del conformismo a cui il potere-centro fagocita il suddito-periferia allettandolo con ogni mezzo, anche quello – come al Festival di Sanremo – di farlo sentire co-protagonista moderno e illuminato della (finta) trasgressione obbligatoria e assistita; o viceversa inducendo altri ad opporvisi in nome dei vecchi valori. Anche questo fa brodo. Cioè loro fanno i soldi, noi glieli produciamo con gli ascolti e i vani battibecchi sui social. Noi generalmente omologati e per di più bei contenti, perché “sempre allegri bisogna stare, ché il nostro piangere fa male al re, fa male al ricco e al cardinale, diventan tristi se noi piangiam” (Jannacci, Ho visto un re).

La trasgressione, quella vera, non la si fa per soldi ma per dedizione a un bene ideale intravisto o affermato come presente. Non rende; semmai costa. La si paga. L’hanno pagata – e cara – tutti e tre i nostri Grandi. Da cui abbiamo ancora più che mai da imparare quella posizione umana che non accetta di censurare l’esperienza col pregiudizio e la realtà con l’apparenza.

Non è un caso che don Giussani, assai attento a Gaber e amicissimo di Testori, e grande educatore liberissimo dal potere, facesse cantare, commentandola, la canzone di Jannacci, Ho visto un re, ai raduni dei giovani universitari (la faccenda è ben raccontata nella biografia scritta da A. Savorana).

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