Rimettere la persona al centro dell’impresa e dell’economia è la grande sfida di questa epoca. Adeguare salari e tutele, progettare e realizzare percorsi formativi e professionali all’altezza del mondo che cambia sarà decisivo. Ma non basterà.
E non basterà nemmeno insistere sul ruolo delle competenze trasversali, le cosiddette “character skills”, soprattutto se verranno interpretate come meri meccanismi funzionali alla produzione e non anche come strumenti utili alle persone perché “riprendano in mano” la propria soggettività, la propria motivazione. O meglio, i propri desideri.
Oggi, sempre più spesso, la formazione tradizionale, incentrata su competenze quali ricordare, comprendere, fare nessi, dedurre, valutare, viene integrata con attività che coinvolgono altre capacità legate alle caratteristiche di personalità, come l’apertura mentale, la capacità di collaborare, la sicurezza, la resilienza, la creatività, la flessibilità, il problem solving.
In altre parole, si è cominciato a non dare più per scontato che le qualità umane soggettive, che muovono l’agire delle persone, vengano giocate nello studio e nel lavoro. Per quale motivo?
Da qualche decennio le logiche spersonalizzanti del neoliberismo si sono diffuse con l’ampio processo di burocratizzazione e digitalizzazione che, insieme a enormi vantaggi, rischiano di rendere disumana la dimensione più umana che ci sia, quella del lavoro.
Applicazioni, piattaforme e strumenti tecnologici specifici ci aiutano a svolgere infinite mansioni. Ma così parcellizzati, meccanizzati, informatizzati, facciamo sempre più fatica a trovare il senso del lavoro che compiamo. La dimensione della relazionalità è ormai sempre più astratta e le persone sono estraniate da sé stesse e dal rapporto con gli altri. Per questo il tema della persona riemerge con un’importanza che prima non aveva.
Certo, politiche mirate e una congiuntura favorevole potrebbero rendere il mercato del lavoro più dinamico e ricco di opportunità. Ma fenomeni in crescita come “burnout”, “great resignition”, “yolo” (you only live once), “quiet quitting” (difesa dal lavoro facendo lo stretto necessario) mostrano che le performance personali e aziendali, la carriera, lo stipendio sono fondamentali, ma insufficienti a ridare uno scopo profondo al lavoro.
Non è un caso che i giovani in particolare, stiano mettendo in discussione una certa immagine di “ambizione” professionale, intraprendendo una ricerca di senso e di qualità del lavoro stesso.
Una ricerca internazionale condotta dall’IBM Institute for Business Value ha indagato le motivazioni che spingono a cambiare lavoro. Per primo (32%) si trova il bisogno di maggiore flessibilità del luogo di lavoro; segue la voglia di avere un incarico più mirato e soddisfacente (27%). Quando è stato chiesto quali condizioni dovrebbero offrire i datori di lavoro per coinvolgere i dipendenti e convincerli a non licenziarsi, è stato risposto: l’equilibrio tra vita professionale e vita privata (51%) e le opportunità di avanzamento di carriera (43%).
Altre ricerche dicono che coloro che sono interessati al fenomeno della great resignation non condividono i valori dell’azienda, si sentono utilizzati, e nel tempo del lavoro il loro desiderio non viene espresso.
E questo è il punto. Come coniugare la propria vita lavorativa con il desiderio più profondo che ci muove? L’azione dell’uomo che lavora a quale domanda risponde? Solamente guadagnare quattrini, esercitare un potere, oppure realizzarsi personalmente e socialmente?
Sono domande che valgono sempre, in qualunque epoca.
Quello che personalmente osservo è che chi prende sul serio i suoi desideri, le sue predisposizioni naturali, non solo per metterle funzionalmente al servizio della professione, ma come qualcosa da ascoltare, stimare, interpretare, comincia una strada nuova, anche in situazioni difficili. Guarda la realtà che ha davanti nel lavoro come occasione per imparare e per cercare risposte, correggendo più liberamente il suo percorso (nel caso anche cambiandolo) e diventando più capace di accettare i sacrifici senza esserne schiacciato.
La conseguenza di una maggiore legittimazione dei desideri più profondi non è una concessione al narcisismo, ma è il passo indispensabile per tornare a dire “io” e questo è indispensabile per scoprire una socialità più sana, anche sul lavoro, dimensione che a sua volta aiuta a riprendere in mano se stessi.
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