Nel corso del 2023, a 150 anni dalla morte, il riconoscimento del valore di Alessandro Manzoni è stato pressoché unanime. La storia del nostro paese gli deve tanto, la storia dei cattolici così come quella dei patrioti che hanno combattuto per l’unità d’Italia, la storia dei romantici così come quella degli illuministi nostrani, la storia della nostra bella lingua italiana nonché il cammino di quella coscienza della dignità di ogni uomo così radicata nel nostro popolo.
Di tante cose siamo debitori a Manzoni, ma ce n’è una in particolare che proprio nel nostro tempo si impone come un fattore di cui abbiamo un terribile e vitale bisogno. L’amore alla realtà. La venerazione per la realtà nella sua interezza e totalità. Perché la realtà è sempre più grande della gabbia delle nostre ideologie, della presunzione di onnipotente dominio che la tecnologia sembra offrirci, della grettezza con cui troppe volte interpretiamo i comportamenti degli altri.
Di fronte al drammatico e spesso enigmatico disagio dei giovani invochiamo la realtà delle regole, anziché provare ad inginocchiarci davanti ad un mistero che non comprendiamo, ma che non è per questo meno reale. E cosa dire delle centinaia di migliaia di immigrati che affollano le nostre città, parlano una lingua diversa dalla nostra, hanno religioni e costumi diversi dai nostri? Una realtà che preferiremmo evitare. Diversi e quindi un po’ meno “reali” di noi!
Nell’immaginario manzoniano la realtà, quella dei suoi tempi, c’era tutta. Poveri, potenti, ladri, assassini, uomini, donne, vittime e carnefici, preti e bestemmiatori. Manzoni amava i romantici perché “erano unanimi nel ritenere che la poesia deve proporsi per oggetto il vero” e tale era stata la stima nutrita per la cultura romantica, da affermare che “in questo sistema mi par di vedere una tendenza cristiana”.
Manzoni sa che la realtà, quando non viene mutilata, quando le si permette di porsi e di imporsi nella sua totalità, ha sempre, in qualche modo, a che fare con la religione. Grida una domanda di senso. Suscita nell’uomo che lealmente la incontra, o si scontra con essa, una inevitabile domanda di significato. Scrive in maniera suggestiva don Giussani nel Senso religioso: “il mondo, questa realtà in cui ci impattiamo, è come se nell’impatto sprigionasse una parola, un invito, facesse sentire un significato. Il mondo è come una parola, un logos che rinvia, richiama ad altro”. Questo invito che sprizza in modo incontenibile dalla realtà ci indica che essa è più della sua apparenza. Nella sua semplicità la Lucia manzoniana sapeva che nella gioia come nel dolore c’è sempre qualcosa d’altro da scoprire e da vivere. “I guai vengono spesso”, dirà nell’ultima pagina del romanzo, aggiungendo però che, “quando vengono, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore”. Anche i guai possono mostrare la parte di bene che è nascosta in essi, quel fattore tanto misterioso quanto reale che, se anche solo intravisto, cambia la vita.
E il linguaggio della poesia sa cogliere questo fattore, sa andare nel profondo della realtà, così come nel profondo del cuore umano. Diceva recentemente Papa Francesco agli artisti: ”Portate alla luce l’inedito, arricchite il mondo di una realtà nuova. Sapete guardare le cose sia in profondità sia in lontananza, scandagliare la realtà al di là delle apparenze”.
Lo sguardo di Manzoni infatti spalanca sempre un oltre. Non qualcosa fuori dalla vita, ma un oltre concreto, che accade nella realtà come evento imprevedibile. E così può succedere che l’Innominato, personaggio noto e temuto per le sue malvagie nefandezze, una sera sia toccato dalle parole di una terrorizzata e tremante Lucia, che lui aveva fatto rapire e che ora, in maniera ancora una volta imprevedibile, trova il coraggio di ripetergli per ben due volte “Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia”. Queste parole, che nella notte gli tornano alla mente, intercettano quella “uggia delle sue scelleratezze”, che da tempo provava. Una notte tragica, in cui tutto il male compiuto gli si abbatte violentemente addosso, in cui nulla, neppure l’idea di un facile suicidio, può sottrarlo alla disperazione.
Quelle parole gli sono entrate nel cuore, ma non bastano a toglierlo dall’angoscia. Ancora una volta deve accadere qualcosa, un fatto. “Ecco che, stando così immoto a sedere, sentì arrivarsi all’orecchio come un’onda di suono non bene espresso, ma che pure aveva non so che di allegro. “Che allegria c’è? Cos’hanno di bello tutti costoro? Corse a aprire una finestra e guardò. Gente che passava, altra che usciva dalle case, e s’avviava. Gli atti indicavano una fretta e una gioia comune. Guardava, guardava; e gli cresceva in cuore una più che curiosità da saper cosa mai potesse comunicare un trasporto uguale a tanta gente diversa”.
A questo insistente guardare segue uno degli episodi più noti del romanzo. L’Innominato scopre che tutta quella gente sta andando dal cardinale Borromeo, appena giunto in paese e, ancora una volta in maniera imprevedibile, decide di unirsi a quel popolo festoso. “Perché non vado anch’io? Perché no? Anderò, anderò”. Anche per l’Innominato la realtà si è mostrata in tutta la sua imprevedibilità. Gente che condivide qualcosa di bello. Un’allegria che lo attrae. Lui guarda. Non interpreta. Si lascia attrarre e va.
Come per l’Innominato anche per noi la realtà è veramente la più grande risorsa. Anche perché Dio stesso ha scelto di abitarla e di diventare uomo come noi, carnale e concreto come noi. Resta solo da andare a verificare se nella compagnia con questo Dio la vita diventa migliore. L’Innominato è andato!
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