Se la contrattazione batte il salario minimo

Il Meeting è stato pieno di suggerimenti interessantissimi non solo per ripensare il senso del lavoro, ma anche per entrare nel merito delle soluzioni

Riconsiderare il lavoro umano come centro e motore dell’economia è una sfida cruciale del nostro tempo. Dal lavoro come merce (necessaria) di marxiana memoria, al lavoro come merce sempre meno necessaria di oggi, rapidi e profondi cambiamenti hanno generato e generano problematiche complesse che meritano riflessioni non parzializzate. Ragionando a spezzatini, non si cava un ragno dal buco (lo spezzatino del momento è il salario minimo).

Fortuna che siamo bei freschi di Meeting e se facciamo un attimo mente locale notiamo che nella kermesse riminese, dedicata all’amicizia come esistenza personale e sociale, il tema del lavoro è stato affrontato direttamente almeno in una dozzina di appuntamenti, tra convegni, talk e mostre, con un’ampiezza di orizzonti che sarebbe un peccato perdere. E con una gamma di aspetti e punti di vista davvero ragguardevoli. Senza trascurare luci e ombre.

Le luci. A guardare gli ultimi dati sull’andamento dell’occupazione non dovremmo lamentarci. Rispetto a un anno fa, gli occupati sono 385mila in più e i disoccupati 280mila in meno. Ma ombre ci sono eccome. La disoccupazione è ancora alta, quella giovanile preoccupante, specie al Sud. I ragazzi che non studiano né lavorano sono 1,7 milioni, un’enormità. Molte competenze formate da scuola e università non si incrociano con quelle richieste dalle aziende. I tipi di lavoro cambiano e né lo Stato né il mondo produttivo hanno un progetto su come reimpiegare con adeguata formazione i 40-50enni. Trattenere e valorizzare i nostri talenti e attrarne dall’estero è poco più che un auspicio. Le donne, nonostante i passi avanti, sono ancora penalizzate nel numero di occupate, nei ruoli e nella conciliazione con la vita privata.

Le esperienze testimoniate nell’incontro “Il lavoro come vocazione”, la mostra sul lavoro da San Benedetto a oggi, la lezione della presidente della Corte costituzionale, Silvana Sciarra su “Il lavoro al cuore della democrazia” hanno riposizionato radicalmente l’ottica con cui guardare al lavoro. Esso va connesso alla persona nella sua unità e all’amicizia sociale come contesto solidale. Il lavoro non può essere ridotto a prestazione di forza lavoro ceduta a chi possiede i mezzi di produzione, ma è attività ed espressione della persona umana, mezzo per il “compimento della sua vocazione ad essere persona” (la citazione è dall’enciclica Laborem Exercens di Giovanni Paolo II). Essa entra nel merito del senso del lavoro, della sua dignità intrinseca, pone il tema della giustizia nell’atto del lavoro e non solo come equa redistribuzione dei redditi tra ricchi e poveri.

Di grande interesse da questo punto di vista una recente ricerca commissionata da Cgil-Cisl e Uil di Bergamo. Essa mostra che al primo posto delle attese dei giovani rispetto al lavoro non c’è quella di avere un buono stipendio, ma buone relazioni e un lavoro che abbia un senso e sia soddisfacente (tranquilli: un buon stipendio viene subito dopo). La soddisfazione personale appare qui legata alle buone relazioni, cioè a un contesto di dialogo con la parte aziendale e a una vicinanza e senso di solidarietà tra colleghi.

Per farla breve, si possono ricavare dal Meeting due indicazioni prospettiche per il Paese a riguardo del lavoro.

La prima è investire sulla persona. La seconda investire sull’amicizia sociale.

La prima direttrice consiste nel supportare adeguatamente il percorso di istruzione e formazione, in modo che siano sviluppate non solo le competenze specifiche ma anche le soft skills, le attitudini della persona all’iniziativa, al lavoro di gruppo, alla flessibilità ecc., che – insieme alle competenze digitali – sempre più fanno parte dei profili richiesti dalle aziende. Un dialogo permanente e costruttivo va promosso tra mondo produttivo e mondo accademico in modo che il disallineamento tra competenze formate e competenze richieste sia ridotto il più possibile. Va incrementata la formazione universitaria e ridotto al massimo l’abbandono scolastico: trova lavoro una percentuale di laureati molto più elevata dei non laureati. Non è vero che per lavorare non serve studiare. I dati mostrano che tutto ciò che contribuisce a elevare il livello della persona facilita un ruolo attivo nella società.

Investire sull’amicizia sociale significa in particolare, oltre a promuovere i raccordi di cui si appena detto, supportare e rafforzare le forma di rappresentanza dei lavoratori, la partecipazione alla vita delle imprese, e in particolare il ruolo della contrattazione collettiva, nazionale e aziendale. Con tutte le pecche e gli errori che nessuno vuole negare, è però un fatto incontestabile che la contrattazione collettiva come asse fondamentale per il riconoscimento della dignità, delle condizioni e della remunerazione del lavoro è un patrimonio imperdibile del nostro Paese. Esso si inscrive nel solco della cultura sussidiaria ed affida alla concertazione tra le parti la ricerca e l’applicazione delle soluzioni. È una cultura che privilegia la negoziazione bilaterale sul conflitto (ammesso come extrema ratio). Questa cultura è verosimilmente più presente nella Cisl, meno nella Cgil.

La contrattazione e la logica degli enti bilaterali (molto ben applicata per esempio dalla Felsa, la categoria Cisl dei lavori atipici) che ha contrattualizzato, fra l’altro, significative prestazioni di welfare a favore dei dipendenti.

Percorrere questa strada significherebbe per esempio, introdurre per le imprese in tutti i settori l’obbligo del contratto collettivo, e stabilire criteri e regole per cui lo Stato riconosce (o non riconosce) tali contratti, considerandone la qualità complessiva (compreso il salario, ma non solo), per intervenire in particolare sul lavoro povero e scongiurare contratti capestro firmati da sindacati gialli, cioè padronali di comodo.

Chi è convinto che il metodo della contrattazione è la strada giusta e più favorevole ai lavoratori, è normalmente contrario al salario minimo stabilito in legge. Il motivo è che la legge per sua natura prevale sul contratto, e quindi vi è il rischio che poche o tante aziende “escano” dal sistema della contrattazione collettiva e optino per soluzioni di legge peggiorative per i lavoratori.

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