Tre premesse e una sfida comune

- Maurizio Vitali

Non è detto che per “fare l’Europa” sia necessario essere santi, però di certo aiuta. Lo raccontano le vite di De Gasperi, Schuman e Adenauer

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Alcide De Gasperi (1881-1954) (Ansa)

Non so se per fare l’Europa è proprio necessario essere santi. Però aiuta. Così almeno suggerisce la storia: è un fatto che tutti e tre i padri fondatori dell’unità europea – un francese, un italiano e un tedesco – sono in pista per diventarlo. Il più avanti nell’iter è Robert Schuman (1886-1963), che ha raggiunto il grado di Venerabile Servo di Dio. Cioè: ha superato l’inchiesta diocesana della Curia ecclesiastica di Metz (1990-2004), la quale è stata poi validata (nel giugno 2021) dalla Congregazione per le cause dei Santi. Papa Francesco ha infine accolto e ufficializzato, il 21 giugno dello stesso anno, il giudizio che lo statista francese ha praticato le virtù cristiane (teologali, cardinali e annesse) in grado eroico.

Alcide De Gasperi (1881-1954) è anch’egli Servo di Dio (non ancora “Venerabile”) dal 1993, quando è stata avviata la causa di beatificazione presso la Curia di Trento. Da più parti si invoca analogo iter per Konrad Adenauer (1876-1967).

Che cosa hanno in comune i tre? La nascita in una famiglia cattolica, un’educazione cristiana significativa, l’impegno giovanile nell’associazionismo cattolico a cavallo dei due secoli e in opere di carità e di solidarietà. La pratica cristiana nella vita personale, da giovani e da grandi. La fede vissuta come “totalizzante la vita”, che perciò diviene cultura, criterio di giudizio sulla realtà e nutrimento di speranza e di visione profetica. Ancora: una vocazione alla politica come servizio al bene comune, in perfetta continuità con quegli stessi valori. Una sensibilità al metodo sussidiario, secondo gli insegnamenti di Leone XIII e di Pio XI.

Poi, la persecuzione e il carcere subito dai regimi totalitari e oppressivi. Il maturarsi di un’idea di democrazia come strumento, nato e sviluppato con il cristianesimo, per valorizzare la dignità della persona, assicurare la libertà, affermare il rispetto dei diritti altrui e dare corpo e struttura di giustizia sociale all’amore per il prossimo. In comune, infine, i tre hanno evidentemente un ideale di pace e quindi di integrazione europea basato su una comune idealità, un comune sentire e quindi un comune metodo.

L’Europa dei tre servi di Dio – sia detto, intendiamoci, con il massimo rispetto per tutti – non è l’Europa del Manifesto di Ventotene di Altiero Spinelli e Ernesto Rossi. Per loro – chiedo scusa per la sintesi necessariamente molto approssimativa – si sarebbe dovuti partire da un super-Stato europeo federalista innervato sull’egemonia delle forze progressiste e capace di ottenere la pace universale attraverso il declassamento e il depotenziamento degli Stati nazionali considerati inevitabilmente una fucina di forze reazionarie (compresa la Chiesa cattolica) e di totalitarismi guerrafondai sovente acclamati dalle masse. L’Europa di Ventotene sarebbe stata in ogni caso l’attuazione di un progetto predeterminato di ispirazione illuministico-giacobina, una specie di utopica pax perpetua tanto cara a Immanuel Kant, calata dall’alto.

Intanto un’altra “pax” stava calando, quella che si era fatta strada con due bombe atomiche e un accordo tra gli imperi vincitori (Usa, Francia, Gran Bretagna, Urss) su come farla pagare ai vinti (cattivi e reazionari) e spartirsi il bottino. Da che mondo è mondo le cose sono sempre andate pressappoco in questa maniera. I nostri tre servi di Dio invece osano pensare e provano a realizzare l’impossibile: una pace ottenuta tendendo la  mano ai nemici sconfitti. Cioè non spappolando la Germania e non annichilendo l’Italia. Tra parentesi la prima guerra mondiale è stata fatta per spappolare l’Impero austro-ungarico (e la Prussia); il vuoto geo-politico così creatosi al centro dell’Europa ha fatto da culla termica per il nazionalsocialismo di Hitler; ora spappolare di nuovo la Germania (e non dare una chance all’Italia) avrebbe probabilmente fatto ricominciare il ciclo perverso. A questo errore i nostri tre santi si opposero: il rischio c’era, e lo scongiurarono. L’idea strepitosa fu di mettere in comune tra vinto e vincitore ciò per cui Francia e Germania si erano sempre sbranate a vicenda: il carbone e l’acciaio, cioè le basi dell’economia industriale. Un idea così geniale e inaudita sarebbe stata follia se non avesse potuto nutrirsi di una speranza su cui scommettere, ragionevolmente e non sulla pelle della gente. Una speranza fondata su un presente.

Qui c’entra, eccome, il fatto che i nostri tre fossero uomini religiosi. È stato di grande aiuto, in questo, l’intervento di un amico nel gruppetto di scuola di comunità cui partecipo. Come molti lettori sanno, scuola di comunità è la catechesi di Comunione e liberazione, che quest’anno ha per testo Il senso religioso di Luigi Giussani. I primi tre capitoli di questo testo definiscono i tratti fondamentali della posizione più adeguata con cui l’uomo è chiamato ad affrontare la realtà e la sua stessa esperienza: realismo, ragionevolezza, affezione al vero.

Il sullodato gruppetto è fatto tutto di giornalisti, e ignorare il tema europeo sarebbe stato improbabile. Ed ecco che l’intervento con efficace semplicità ha fatto notare come quei tre criteri descrivono assai bene la postura ideale e politica dei fondatori della Comunità europea. Essi hanno concepito e perseguito all’unisono un’Europa costruita un passo alla volta, calcolando che senza assicurare i fattori economici decisivi ogni disegno politico sarebbe stato velleitario. Dando il tempo alla gente di maturare una concezione europeista che non si assimila dalla sera alla mattina.

Hanno compiuto una missione impossibile, vinto una sfida colossale. Non su tutta la linea: avrebbero voluto non solo un mercato europeo comune, ma anche una difesa comune europea, ma questo non si è potuto fare. Non è necessariamente il successo pieno la verifica della bontà di una proposta politica.

E oggi? Le sfide per questa Europa, che appare alquanto strepenata e imballata in un mondo che cambia e in cui rischia l’insignificanza, sono diverse da quelle di un tempo ma davvero epocali. Non sono scontati, anzi!, né la pace, né lo sviluppo tecnologico, né lo Stato sociale, né la cultura umanistica e democratica. La missione dunque può sembrare impossibile. A chi è serio e considera le cose anche solo un po’ più in là della punta del naso.

Poi c’è sempre chi fa il ganassa e la fa facile, propinando ricette plausibili come gli elisir di lunga vita degli imbonitori del Far West. Mi è venuto in mente don Sturzo, che ci aveva visto giusto con largo anticipo: “Non è da tutti saper fare della politica, ma di coloro che ne sono dotati. Come ogni arte, anche la politica ha i suoi grandi artefici e i suoi artigiani. Naturalmente vi saranno anche i mestieranti. Il pubblico sceglie i suoi beniamini anche fra i mestieranti”. Non so se oggi per ri-fare l’Europa è proprio proprio necessario essere santi. Certo almeno non mestieranti.

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