Oggi la liturgia festeggia Cristo re. Il vero Re è il grande Paziente della storia. In Lui la nostra speranza non delude, perché ha vinto fin dal principio
Quando tutto tace, quando il cielo si fa buio, quando i discorsi non reggono più, quando le trame sono arrivate al capolinea, quando gli amici sono scappati, quando la vita pulsa nelle sue ultime energie, è il momento della regalità. Stupisce sempre l’audace contraddizione della festa di oggi: la Chiesa riconosce nel punto più debole il vertice della gloria. Questa la sintesi che ne fa san Cirillo di Alessandria: “Lo vedi crocifisso e lo chiami re. Credi che colui che sopporta scherno e sofferenza giungerà alla gloria divina” (Commento a Luca, omelia 153).
Sembra un titolo d’altri tempi, Cristo Re dell’Universo; in realtà custodisce un’indicazione di metodo preziosissima per la vita. L’ho vista in atto qualche giorno fa a scuola. In una classe c’è un ragazzo molto vivace, spesso sopra le righe, preoccupato di farsi notare e molto abile nel rendere la lezione difficoltosa. Uno di quelli di cui si impara il nome la prima ora dell’anno. L’altro giorno, mentre sono fuori dalla classe in attesa di entrare al suono della campanella, all’improvviso esce e viene da me. Di schianto, senza troppi giri di parole, mi dice: “Don, devo venire a parlare con lei in parrocchia”. Stupito dall’imprevedibilità di ciò che stava capitando gli rispondo: “Perché da me?”. Risposta secca: “Non ho nessuno con cui parlare dei miei problemi”.
Non gli ho mai visto un volto così suo e così lieto, liberato, come nell’istante in cui ha pronunciato quella frase. In quel punto di debolezza si è rivelata la regalità del suo cuore. Regalità come capacità di dar voce al suo bisogno, senza continuare a tenerlo a bada facendo finta che tutto vada bene comunque.
L’origine più remota della parola “re” è dal sanscrito “rags” che significa “brillare”. Diventiamo dei re quando il nostro volto brilla per la verità di quello che stiamo vivendo. Come Cristo in croce, che ha attraversato tutta la voragine della solitudine umana, sorprendendo la presenza unica del Padre. Forse anche per questo ha voluto trattenere, sul suo corpo risorto, i segni di quella originale regalità, che si è messa in attesa della nostra.
Che differenza rispetto a quando giochiamo a fare i padroni, i potenti, i forti, tentando di rimpiazzare l’attrattiva che non abbiamo con un senso del dovere che genera schiavi, o improvvisandoci fenomeni preoccupati di conquistare gli altri senza partire da ciò che ha conquistato noi.
Solo Dio fa nascere figli: uomini e donne che non temono di essere presenti con tutto il proprio umano nelle variegate circostanze che li attendono al varco. Per questo, quella di Cristo, non è una regalità che ha bisogno di conquiste, di battaglie, di prove di forza, per imporsi finalmente sulla storia, perché è già data al principio, è fondata nell’intimo dell’uomo, dove urge la domanda di verità, di lealtà con la propria natura. E lì, nel suo punto sorgivo più verace, attende di essere riconosciuta e preferita a tutte quelle altre forme ridicole di potere cui ci rivolgiamo, pur sapendole insufficienti e deludenti.
Guardando al metodo di Cristo, e notando la sproporzione rispetto al nostro, sorgono in noi alcune domande: “Perché non fa nulla per garantirsi il successo, per ingraziarsi i potenti, per ottenere appoggi per il suo programma? Perché non lo fa? Come può pensare di cambiare le cose da ‘sconfitto’? In realtà, Gesù si comporta così perché rifiuta ogni logica di potere (cfr Mc 10,42-45). Gesù è libero da tutto questo!” (Papa Francesco, omelia del 24 novembre 2024).
Il vero Re è il grande Paziente della storia, e questa è la nostra speranza. Non si stanca, non si arrende, non demorde, perché ha già vinto, già regna, e attende di incontrare il nostro sì libero, quel sì che fa brillare il volto, quando tutto cade e resta la letizia di una vita data.
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