La scorsa settimana si è tenuto un interessante seminario sulle non cognitive skills organizzato dal Festival dell'Innovazione Scolastica
Mettiamoci per un attimo nei panni di un insegnante. Primaria o secondaria cambia poco. Davanti agli occhi si presenta un titolo simile: “Introduzione dello sviluppo di competenze non cognitive e trasversali nei percorsi delle istituzioni scolastiche e dei centri provinciali per l’istruzione degli adulti, nonché nei percorsi di istruzione e formazione professionale”. Un articolato dispositivo normativo che promette di incidere sulla vita scolastica di tutti.
La prima reazione è quasi inevitabile: ci risiamo. Un’altra riforma pensata lontano dalle classi, un nuovo lessico da decifrare, una serie di richieste che sembrano aggiungersi alle molte che già gravano sulle spalle dei docenti. Perché alla fine, come sempre, i conti con i ragazzi li faremo noi che siamo in classe, non chi ha scritto il provvedimento.
O magari anche no. Perché forse in questa legge 22 del 2025 qualche spunto di novità reale c’è. Se n’è parlato al ministero dell’Istruzione e del Merito il 28 novembre, in un seminario organizzato dal Festival dell’Innovazione Scolastica.
Punto primo: “Il Ministero non calerà dall’alto un vademecum prescrittivo rigido, ma fornirà un quadro di riferimento che accompagni le scuole”. Punto secondo: “L’obiettivo è che siano le pratiche migliori, emerse durante la sperimentazione triennale, a definire le future linee guida”. Così Monica Logozzo, dirigente del ministero e coordinatrice del gruppo di lavoro che dovrà guidare l’applicazione della legge 22 nelle scuole.
La roadmap di applicazione della legge dà priorità assoluta alla formazione triennale dei docenti e a una sperimentazione aperta a scuole di ogni ordine e grado. Molto chiaro anche il focus: definire non solo quali competenze sviluppare, ma soprattutto come valutarle e certificarle, uscendo dalla vaghezza. Con una mission finale: non lasciare sole le scuole, laddove il ministero si pone come soggetto che accompagna e valida il lavoro dei docenti e degli istituti.
Parole importanti per una realtà come il Festival dell’Innovazione Scolastica, che oltre a sorgere in una cittadina come Valdobbiadene – diventata patrimonio Unesco per le sue colline del Prosecco – proprio su questo si fonda: dar voce alle scuole, mettere in campo le esperienze, invitare gli insegnanti a raccontarsi e confrontarsi. Lo ha fatto anche quest’anno, dal 3 al 5 settembre, in maniera piacevolmente conviviale con un confronto dedicato proprio alle soft skills nella scuola.
Perché, ricorda il suo presidente Alberto Raffaelli, “l’Italia è un Paese di commissari tecnici, ma poi chi scende in campo ogni giorno sono i nostri insegnanti. E la cosa che quasi commuove incontrandoli al Festival è che in loro ci sono poche tracce della narrazione catastrofistico-mediatica sulle nuove generazioni allo sfascio. Vedi la passione di mostrare come i ragazzi rispondono ‘presente’ quando incontrano proposte significative”.
È “un fenomeno di intelligenza collettiva”, il Festival. Così almeno secondo Thomas Ducato, ricercatore Edulia Treccani Scuola. Perché innovazione è sinonimo molto più di condivisione che di digitale o tecnologia. Innovare implica uno shift di metodo e di sguardo, non semplicemente adottare un tool alla moda. Di qui il “Poster delle competenze non cognitive”, frutto di un lavoro di co-progettazione tra il Festival ed Edulia, nato dall’ascolto delle storie di 220 scuole, “perché l’apprendimento vero è esperienza”, spiega Ducato, “e l’esperienza umana, relazionale, emotiva è irriproducibile dalla macchina”.
A Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà, il compito di fornire all’incontro del MIM la cornice culturale e istituzionale necessaria per capire il contesto in cui si colloca la legge 22, evidenziando i limiti di una visione funzionalista della scuola, che riduce l’istruzione a mera preparazione al lavoro per aumentare il Pil, e proponendo invece il passaggio al modello dello “sviluppo umano”. Il che in pratica significa che le non cognitive skills “non servono a produrre di più, ma a formare persone più istruite, competenti ma anche libere, capaci di giudizio critico e di stare al mondo”.
Per questo, in una prospettiva di sperimentazione triennale, forse per la prima volta ciò che conterà davvero non sarà solo la pianificazione, ma l’ispirazione. Di qui l’intervento di Damiano Previtali, presidente del Consiglio nazionale della Pubblica Istruzione. Non piani strategici, istruzioni o ricette nel suo intervento: solo brani di letteratura. Perché “la letteratura è fondamentale quando è visionaria”.
Ecco quindi un profetico Gianni Rodari (La macchina per fare i compiti, 1973) che avverte sul rischio della delega totale alla tecnologia: se la macchina fa tutto, “a cosa serve il cervello?”. O la lettera di Albert Camus, fresco di Nobel, al suo maestro Germain: ciò che salva lo studente, specialmente se svantaggiato, non è l’istruzione tecnica, ma la relazione affettiva e l’esempio del magister. Innovazione e non-cognitive skills non possono esistere se non c’è una comunità educante che si fa carico della persona, un ruolo che non può essere appaltato agli algoritmi, ma che può guidare nel loro impiego.
L’appuntamento ora è dal 4 al 6 settembre, alla prossima edizione del Festival, dal titolo “Intelligenza, intelligenze”. E come andrà interpretato questo titolo lo ha spiegato in conclusione Luigi Ballerini, presidente del Comitato scientifico del Festival, citando Joanna Maciejewska: “Voglio che l’intelligenza artificiale mi lavi i panni e i piatti in modo che io possa dedicarmi all’arte e alla scrittura, e non che l’intelligenza artificiale faccia la mia arte e la mia scrittura in modo che io possa lavare i panni e i piatti”.
“Cercheremo di capire insieme”, ha concluso Ballerini, “quali sono i piatti e i panni del docente, che forse possono essere delegati, e qual è invece la mia arte, quella che non posso delegare a nessuno, tantomeno a un algoritmo”.
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