Il calzolaio, le donne ugandesi e il mismatch

Il calzolaio Sandro e le donne di Rose Busingye sono la prova vivente che si lavora (bene) solo se il lavoro ha un senso che va oltre l’istante

Qui si narra di un calzolaio, di donne ugandesi e di aziende che non trovano lavoratori. Forse non sembra, ma c’entrano.

Dunque.

Qualche giorno fa è morto il Sandro. Sandro il calzolaio. Degli 81 anni della sua vita, almeno 65 li ha passati a sistemare scarpe. Da ragazzo aveva avuto un buon maestro, poi si era messo in proprio. Al funerale c’era tutto il paese. Sì, perché tutti, prima o poi, erano stati nella sua bottega. E tutti vi avevano trovato non solo un eccellente artigiano, ma un uomo appassionato al suo lavoro (“dai, ridiamogli una vita a queste scarpe”), che non hai mai smesso di imparare (perché il mondo cambia e anche le scarpe), appassionato della vita, aperto ai rapporti umani sempre con il tratto della gentilezza buona e della saggia ironia. Cinque minuti nella sua bottega con lui e ti accorgevi di assaporare il gusto del lavoro e della vita.



Fa bene guardare uomini così.

Negli stessi giorni, un’altra splendida testimonianza di senso vissuto del lavoro è giunta – in teleconferenza – da alcune donne ugandesi, talora indicate come “le donne di Rose”. Rose Busingye è figura di spicco della comunità ugandese di Comunione e Liberazione, infermiera e anima di tante iniziative, in particolare del “Meeting Point”, un luogo con la porta spalancata all’accoglienza. Le “donne” hanno tutte alle spalle una vita disperata di povertà, violenza, soprusi, abbandoni, malattie, Aids e altro. Trattate come cose senza valore, fino a sentirsi loro stesse esseri senza valore. L’incontro con chi ha fatto loro scoprire di avere invece un valore, perché volute e amate, ha cambiato tutto. Il loro io è rinato. Vogliono vivere, aver cura di sé, dei loro figli e del prossimo. Lavorano a cavar pietre per mandare i figli a scuola, per educarli e fargli incontrare Quello che ha salvato loro.



Fa bene guardare donne così.

Il 2025, per le aziende di quello che una volta si diceva il Triangolo industriale del Nord-Ovest, e cioè Lombardia, Piemonte e Liguria, si apre con questa prospettiva: di non riuscire a trovare il 50 per cento dei lavoratori che gli servono. Giovani capaci di fare il mestiere di cui c’è bisogno ce n’è pochini. Non hanno le competenze richieste. È quanto risulta da studi appena usciti (dati del Sistema Informativo Excelsior, elaborazioni dell’Ufficio studi della Cgia di Mestre) relativi al primo trimestre di quest’anno. È il fenomeno non nuovo e già noto del disallineamento tra domanda e offerta di lavoro (mismatch); non nuovo ma in continua crescita: nel 2017 questo gap era stimato del 21%, oggi è 48,8, %. La causa principale è l’insufficiente corrispondenza tra il sistema scolastico-formativo e il rapido sviluppo delle tecnologie e delle mansioni. Su questo aspetto c’è molto da lavorare, a condizione che i mondi dell’istruzione e dell’economia si parlino e collaborino, e inneschino dinamiche virtuose. La scuola da sola non potrà mai stare al passo del cambiamento, se non stando organicamente collegata con i contesti dove il cambiamento tecnologico e produttivo avviene. D’altra parte, esperienze come le academy aziendali sono certamente positive, ma solo se in aggiunta e a completamento di un percorso che non è solo di formazione delle competenze specifiche, ma di crescita della cultura, di sviluppo delle attitudini della personalità (character skills) e di educazione al lavoro.



Del resto, se si considerano attentamente le aspettative dei giovani rispetto all’impiego, risultano tra le prime la possibilità di crescita professionale, l’armonizzazione tra tempo di lavoro e vita personale e sociale, il bisogno dare un senso al lavoro.

Tutto  interpella il sistema formativo e chiama in causa anche il sistema delle aziende (e i sindacati): per quanto riguarda l’organizzazione del lavoro, i percorsi di apprendimento e di crescita professionale, le relazioni collaborative piuttosto che solamente gerarchiche, i contesti di ufficio o di reparto, il welfare aziendale, l’agevolazione di maternità e paternità, e quant’altro.

Ma soprattutto bisogna augurarsi che non manchino presenze che del senso del lavoro diano testimonianza viva e quotidiana, come pure che diano testimonianza viva e quotidiana di cosa sia una vera unità auspicabile nell’ambiente di lavoro.

In altre parole occorre aprire le porte dell’economia all’umano; ovvero occorre che l’umano si faccia strada anche in questo mondo del lavoro così segnato dall’individualismo esasperato, dallo stress, dalla competitività, dal non gusto.

Nella fabbrica ultradigitale postmoderna, fa sempre bene guardare un Sandro o le donne di Rose. Sandro, la tradizione viva di un mondo fondato sul lavoro (non sul consumo, il soldo o l’apparire). Le donne di Rose, l’io che rinasce in un incontro che lo abilita e lo motiva (anche) al lavoro umano. Sandro e le donne come il falegname di Charles Péguy (Il denaro, 1913): “Ho veduto impagliare seggiole con lo stesso identico spirito, e col medesimo cuore, con i quali quel popolo aveva scolpito le proprie cattedrali”.

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