Sono passati 20 anni dalla morte di Luigi Giussani. E quel che è accaduto in questo arco temporale è piuttosto significativo
Abbiamo fatto quello che si fa in questi casi, quello che si fa quando si perde un padre e un maestro unico. Abbiamo pianto, abbiamo pregato, siamo corsi al Duomo di Milano in quel giorno freddo e piovoso per dargli l’ultimo saluto, per vedere la sua bara portata a spalle in un silenzio che diceva tutto. Abbiamo ascoltato le parole di Ratzinger in quell’omelia, che sono state un balsamo di consolazione, che sono state la conferma che aveva ricevuto, e noi con lui, un dono dal cielo.
Abbiamo fatto quello che si fa quando si perde un padre e un maestro unico, uno di quegli uomini che raramente appaiono nella storia. Abbiamo scritto sui giornali, abbiamo parlato alla radio e alla televisione, gli abbiamo reso omaggio con la musica che gli piaceva, abbiamo regalato i suoi libri, ci siamo ricordati a vicenda quando lo avevamo incontrato, cosa ci aveva detto quel giorno in una conversazione privata o in un raduno di massa. Abbiamo chiesto a politici, intellettuali, ecclesiastici e agnostici di elogiare la sua figura.
Non volevamo perderlo, non volevamo perdere lo stupore, la scossa, la curiosità davanti a un mondo che ci era sconosciuto; non volevamo perdere il desiderio di una vita diversa, di quella libertà insospettata che avevamo sperimentato quando lo avevamo incontrato, quando lo avevamo ascoltato per la prima volta o quando avevamo ascoltato coloro che lo avevano ascoltato.
Sono ormai passati 20 anni da quella gelida mattina di febbraio. E ora sappiamo che tutto ciò sarebbe stato inutile. Ciò che solitamente accade in questi casi è che il padre e maestro unico rimane indietro nel tempo e la sua memoria diventa sfocata. E le sue parole e i suoi libri diventano oggetto di studio nelle università e nei convegni degli specialisti, mentre l’emozione, la curiosità e la libertà svaniscono.
Sintomatico è ciò che accade quando si leggono quei grandi libri. Ci sono le parole che ha detto e tu le capisci, o credi di capirle, ma normalmente diventano aride come un deserto ghiacciato, come il suolo di un pianeta inospitale. E ce ne rendiamo conto perché sono parole che non aprono più la mente e il cuore, perché non ci portano più oltre quel triste perimetro in cui siamo rinchiusi quando non accade nulla.
Sarebbe stato normale. Di solito è quello che succede. E avremmo potuto celebrare un anniversario dopo l’altro. Cento anniversari e duemila congressi. E avremmo potuto far parlare i vecchi e imparare a memoria ogni parola. Tutto questo non ci avrebbe dato ciò che stiamo ricevendo. Perché quello che è successo in questi 20 anni non è stato normale: il miracolo è continuato.
Lo stupore, la scossa, la libertà sono gli stessi, anche se non come quando ha iniziato a insegnare al Berchet. Meno male. Se non ci fosse un come differente, non sarebbe la stessa esperienza. Non sarebbe esperienza. Discontinuità nel come avviene, assoluta continuità nel cosa. Poiché in 20 anni sono successe molte cose, il mondo non è più lo stesso del 2005, il mondo non è più lo stesso dell’Italia degli anni ’50.
Questi 20 anni non sono stati normali. Abbiamo continuato a partire dal presente per comprendere quel che è successo in passato e a guardare al passato per comprendere il presente. Se fosse stato il contrario, l’avremmo perso. Il presente è un giudice implacabile. Altre voci, altre persone hanno fatto e fanno accadere di nuovo l’esperienza di Giussani.
E ci fanno vivere questa forma di obbedienza alla Chiesa che è propria degli uomini liberi. Mai senza l’autorità del vescovo, garante della contemporaneità di Cristo. Sempre con un’obbedienza grata che aiuta quell’autorità ad assumersi la propria responsabilità. Sempre con una libertà che con umiltà, pazienza e insistenza chiede spazio affinché la propria esperienza possa svilupparsi e giovare a tutti. Sempre con una libertà che è disposta a sacrificare tutto perché ha già tutto.
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