A guardare la situazione europea di oggi c'è da rimanere piuttosto sconcertati e timorosi per il futuro, a differenza di qualche decennio fa
Il nostro mondo si è cacciato in una situazione che mette i brividi. C’è poco da far finta: siamo in braghe di tela. L’edificio di pace e welfare che bene o male per ottant’anni è stata la nostra Europa, e il suo tratto distintivo e peculiare nel mondo, non è più affatto sicuro. La scomposta corsa degli Stati alle armi che si sta progettando a Bruxelles e appoggiata da parte dei giornaloni anche italiani non ci renderà più sicuri, semmai venisse attuata, e in ogni caso sarebbe a scapito dello Stato sociale, cioè della cura per gli anziani, i poveri, i malati, i fragili: praticamente tutti, perché prima o poi…
Non so voi, ma io mi sento alquanto minacciato da paura e disorientamento; perciò bisognoso di un ripasso possibilmente approfondito delle condizioni che salvano l’io, salvano l’umano.
La paura: sembra che la paura sia – rubo due righe all’ultimo numero di Nuova Atlantide – “per così dire, sfuggita di mano, esondata, essere diventata come mai così pervasiva al punto che possiamo indicarla come una sorta di erosione interna al soggetto/persona, prodotta da un suo cedimento strutturale… ” (Enzo Manes, La bolla della paura, p. 10).
Il disorientamento è dovuto alla consapevolezza di non vederci chiaro. Forse in qualche bar ci sarà qualcuno che ha capito tutto e sa come venirne fuori (ma non ne ho incontrati), o forse in qualche talk show politico (ma non li guardo). La realtà è così complessa che non si può catturare con semplicismi. Non dico del tipo la borghesia-il proletariato-la lotta di classe, che era già inadeguato ai tempi che furono. Dico qualunque semplicismo. I potentissimi poteri economici-politici-militari-digitali si muovono con logiche non palesi e la disinformazione imperversa.
Seguo i telegiornali, leggo i giornali e cerco di seguire le voci che mi appaiono serie e oneste. Ma non mi basta. Nella ricerca di un terreno affidabile su cui mettere i piedi mi vengono buoni due testi di don Giussani, che di questi tempi ogni ciellino è invitato a prendere sul serio. Uno è Il senso religioso, l’altro è il recente Una rivoluzione di sé.
Al fondo delle nostre paure e disorientamenti pulsano le nostre esigenze originarie di verità e di giustizia, insieme alla percezione della nostra fragilità, stante l’incapacità di ottenerle, conquistarle, veramente. Qualcosa del genere ci era successo ai tempi della pandemia, ed aveva ragione Francesco quando ammoniva che peggio della crisi sarebbe stato sprecarla, cioè non imparare la lezione.
Il senso religioso aiuta, come non saprei quale altro testo, a imparare la lezione, sempre. Aiuta, cioè, un percorso che conduce – sempre, e non una volta per tutte – dal riconoscimento delle esigenze di bene che fanno l’uomo uomo, alla non censura di esse, e alla presa di coscienza che esse sono segno e promessa di un oltre senza cui la giustizia è impossibile. Per l’innocente condannato a morte come per le migliaia o milioni di vittime delle guerre.
L’oltre, il mistero che fa tutte le cose. Putin, Trump, Xi e compagnia possono giocarsi a scacchi i confini degli imperi, ma non dare scacco matto al Mistero.
Come il grande psichiatra Eugenio Borgna previde che “facilmente cessato il pericolo [della pandemia, ndr.] negli uomini subentrerà l’oblio. Ci sarà però qualcuno, non so quanti, che in questo tempo di dolore avrà colto l’occasione per stare più attento, per ascoltare sé stesso e l’altro più profondamente. Sì, alcuni di noi, dopo questa aspra prova, rinasceranno: capaci di una nuova speranza”.
Una rivoluzione di sé. Per stare da questa parte, per essere un non-vinto, aiuta molto l’altro testo giussaniano. Esso raccoglie il suo insegnamento negli anni a cavallo del sessantotto che scompigliarono la società, la Chiesa, e anche la “sua” Gioventù Studentesca. In quella crisi molti, anche cattolici, intesero partecipare alle istanze di liberazione o abbandonando la fede o riducendola a premessa ispirativa ma storicamente inefficace di un’azione storica guidata dall’analisi e dalla prassi (l’una e l’altra marxista).
La posizione indicata da Giussani, e seguita da quei pochi che non si erano dispersi, può essere sintetizzata nello slogan “Costruire la Chiesa è liberare l’uomo”, con cui si presentavano in università i primi di Comunione e Liberazione.
Il Centro culturale dove Giussani teneva le sue lezioni era intitolato al poeta francese Charles Péguy. Non a caso. Aveva scritto Péguy nella sua Véronique: “Venne Gesù… Fece i suoi tre anni. Ma non perse i suoi tre anni, non li usò per piagnucolare e accusare la cattiveria dei tempi. Eppure, c’era la cattiveria dei tempi, del suo tempo… Lui tagliò corto. Oh, in un modo molto semplice. Facendo il cristianesimo. Non incriminò il mondo. Salvò il mondo. Sulla sabbia del secolo si versava inesauribile una fonte, una fonte di grazia”.
Giussani insegnava che quell’Oltre, il Mistero, aveva un volto, Cristo, ed era una presenza sperimentabile nella storia nella comunione cristiana. Occorre dunque vivere la comunità cristiana. Niente affatto come ritirata. Ma al contrario.
Infatti: “Il primo livello di incidenza politica di una comunità cristiana viva è la sua stessa esistenza, in quanto questa implica uno spazio e delle possibilità espressive, e perciò presuppone una gestione autenticamente democratica del potere pubblico e della realtà politica e statuale in cui si situa… (pensiamo per esempio alle autocrazie oggi galoppanti e alle crisi delle democrazie, ndr) per il solo fatto di esistere, se sono autentiche, le comunità cristiane sono garanti e promotrici di democrazia sostanziale” (Luigi Giussani, Il Movimento di Comunione e Liberazione 1954-1986. Conversazioni con Robi Ronza, pag. 152, Bur Rizzoli 2014).
Nello stesso libro, Giussani chiarisce che “quell’unità, formulata oggettivamente nel battesimo, diventa operativa e generativa di un nuovo assetto sociale” (pag. 87). “Secondo noi, ciò che redime continuamente l’interpretazione dei fatti e dei bisogni, nonché l’impegno pratico dell’uomo (che sono in ogni caso inevitabilmente unilaterali) non può essere altro che il contesto vissuto dell’unità cristiana… spalancando un orizzonte ultimo adeguato e immergendo la vita nell’energia del mistero redentore, colloca l’uomo in un atteggiamento di autocritica e di apertura” (pag. 79).
De Gasperi, Schuman e Adenauer sono figli di una storia così, e hanno fatto una certa Europa, perché “spalancati a un orizzonte adeguato” e capaci, perciò, di “autocritica e apertura”. Una cert’altra Europa si è staccata dagli ideali originari. E non faccio nomi. Si vedono i risultati.
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