Dai poveri al Giubileo: la speranza cristiana non delude, anche nelle prove. Ecco la "carne" del messaggio di Papa Prevost
Ci vuole un bel coraggio, di questi tempi, a parlare seriamente di speranza. Oltre alle 50/60 guerre ignorate, ci sono quelle non ignorabili – Ucraina, Medio Oriente – che fanno paura.
Eppure hanno parlato seriamente di speranza – per stare nei territori che più frequento – tempo fa don Julian Carrón (C’è speranza? Il fascino della scoperta, Ed. Nuovo Mondo, 2021); poi mons. Giovanni Paccosi (Quello che mi stupisce, dice Dio, è la speranza, Esercizi spirituali della Fraternità di CL, 2024), gli scritti postumi di Luigi Giussani, L’incontro che accende la speranza (Libreria Editrice Vaticana, 2025) e infine, qualche giorno fa, papa Leone nel suo messaggio per la nona Giornata Mondiale dei Poveri, che sarà il 16 novembre di quest’anno.
Tenendo conto che il Giubileo della Chiesa cattolica è sulla speranza.
Il documento del papa mi ha particolarmente colpito per tre motivi. Il primo, e più importante, è la semplice considerazione che, se è già difficile attestare una speranza in generale, tanto più difficile è riconoscerla per i poveri, che già fanno fatica ad arrivare alla terza settimana, figuriamoci se possono farsi il loro bunker per salvare la ghirba, putacaso, da un maledetto missile o un drone assassino, che chissà mai.
Il secondo motivo è che negli anni sono diventato amico di diversi poveri, e il rimbalzo tra il testo del papa e il sentimento della loro esistenza, e della mia, è stato inevitabile, ancorché non conclusivo; e comunque voglio riferirne un po’ qui. Il terzo motivo, lo ammetto, è un po’ tanto soggettivo e personale, un filo civettuolo se volete, ma non del tutto futile: nel documento di Leone i poveri si chiamano, vivaddio, poveri e non “ultimi”, termine che sempre ho digerito solo con chili di Alka Seltzer.
Il documento del papa non è di quelli che titillano le papille gustative dei media e quindi è passato abbastanza inosservato, tanto più che tutti i riflettori sono puntati tra Garlasco e Teheran.
Il messaggio di Leone consta di sei punti, che riassumo alla buona, contrappuntandolo con qualche mia recente esperienza (usando ovviamente nomi di fantasia).
- Il Signore è la mia speranza, fondata sulla certezza dell’amore di Dio che non delude.
Cavoli, questa è una gran domanda su di me perché, se io metto la speranza in un progetto, mio o altrui, sono (quasi) come i referendum di Landini; oppure dispero, e così fotto la mia umanità.
- I poveri possono essere grandi testimoni di speranza, la quale per essi non può poggiare sulle sicurezze dell’avere e del potere, ma può riposare solo altrove.
Concettina, a quaranta e qualcosa anni, ha un marito manovale, un mutuo che mangia mezzo stipendio, un figlio di 18 anni e una di nove, e una salute molto compromessa. Più una licenza di terza media e una cultura, però, da prima asilo. Sprovvedutissima in tutto (come è importante l’istruzione!). Messaggio: “Maurizio, scusa, mi puoi leggere cosa c’è scritto su queste ricette?” Provvedo. Scrivessero leggibile ‘sti medici… Passano un po’ di giorni, altro messaggio: “Maurizio, scusa, domani devo andare a fare esami in ospedale, la nostra macchina è rotta…”.
La macchina, lo so, è una vecchissima Bravo marrone tutta gibollata dalla grandine, che arranca finché può e spesso soccombe. L’area B di Milano le è interdetta per raggiunti limiti di età e di emissioni. Concettina non sa che esame deve fare, bisogna aiutarla a capire e a fare le pratiche. Vabbè, le palle me le ha rotte, ma le voglio bene, pora stella, ghe pensi mi.
In tutto sto casino c’è anche la Sara, la bimba di nove anni, felice come una Pasqua, felice di esserci e di essere con noi: con la sua mamma, certo, ma un po’ anche con me e sulla mia auto che non è gibollata, ma questo a lei non fa differenza. E poi gode anche azionando quel vecchio rudimentale giochino elettronico, schermo grande come un pacchetto di sigarette, roba di 15 anni fa, già di suo fratello, strausato, ma per lei è una figata; e poi ne ha un altro, di suo cugino, vecchio e strausato non so quanto. Ma lei è aperta e felice. Lo è perché ingenua? No.
Lo è per la sua purità originaria che accoglie il poco che ha come dono, come risposta; che percepisce da piccoli segni l’essere amata. Nulla le viene dal potere o dal possedere chissà che cosa. Certo, questa positività originaria verrà presto bombardata dalla mentalità prevalente in questo nostro mondo e dai suoi falsi ideali: questa è la grande sfida, che ci riguarda tutti, che riguarda anche me, tutti insieme: tenere in vita il presentimento, la promessa di un oltre magari incontrabile, riconoscibile.
E la mamma? La mamma, quando ha bisogno, domanda. A me dà fastidio domandare, anche chiedere la strada, se non la so, e questo anche prima che ci fossero i navigatori. Scherzi della pretesa autosufficienza. Ma domandare è atto di verità: riconoscersi bisognoso, dipendente: e quindi è preghiera. Concettina non ha vergogna di pregare, anche se non lo sa.
- “La più grande povertà è non conoscere Dio”.
Eleonora ha cinquanta e rotti anni, un marito e tre gatti. Aveva un lavoro e la salute, suo marito anche. Con il Covid entrambi hanno perso il lavoro, del tutto; e anche la salute: lei gravemente, cancro e altre complicazioni; lui meno gravemente ma tutto è più faticoso. Ci conosciamo da qualche anno, le porto un aiuto alimentare con il Banco di Solidarietà e siamo diventati, oso dire, amici.
Recentemente è uscito il libro Amati. Un’esperienza possibile di Andrea Franchi e Massimo Piciotti (Edizioni San Paolo, 2025, prefazione del card. Zuppi) che raccoglie sedici storie di persone connesse alle esperienze dei Banchi, storie di incontro, di amore e di speranza, di percorso di crescita e di riscatto umano e di fede.
Avevo deciso di getto che una copia l’avrei regalata a Eleonora (non mi risulta che sia praticante). Al momento di andarla a trovare, mi si è insinuata una stolida dubbiosità: ma queste storie, queste espressioni, queste parole, le capirà? Non penserà che io la voglia indottrinare? So che simili dubbiosità sono da pirla e denotano non un problema dell’altra persona ma una carenza mia: sono io, casomai, che leggo “male” quelle parole e quelle espressioni, come se fossero un po’ in codice, buone per i già convinti.
Ma lascia che raggiungano come sono la libertà e il cuore dell’altro! Così mi sono detto e così ho fatto. Non so l’esito: ma che importa? La più grave povertà è non conoscere Dio.
- La speranza cristiana è certezza nel cammino della vita. Perciò la città di Dio ci impegna per la città degli uomini generando carità.
- La carità è il più grande comandamento sociale. Le opere ne siano segno.
Simona e Sabrina hanno appena superato i 20 anni. Di famiglia numerosa, povera e tormentata. Anche da squilibri psichiatrici. Ambiente insopportabile. Il desiderio di vivere, respirare, avere uno spazio libero, provare felicità… è normale. Ma le esigenze, i desideri, se non sono salvati e abbracciati in tutta la loro ampiezza (cfr. Luigi Giussani, op. cit., pag. 27) – se nessuno ti aiuta in questo – “il traguardo, che era un orizzonte grande, diventa una porta che fa scivolare in un chiuso”. E così le due sorelle sono diventate mamme di due creature figlie di padre ignoto.
Però il figlio entrambe l’hanno tenuto e lo curano con amore. Comune e assistente sociale si sono mossi; grazie a un’associazione che si chiama Tuendelee le due ragazze hanno un alloggio dignitoso in autonomia; Caritas, Banco di Solidarietà e Centro Aiuto alla Vita si sono coordinati per dare una mano. Anche loro contente come una Pasqua quando hanno sperimentato la vicinanza amichevole di qualcuno. Anche delle istituzioni: lo spirito di sussidiarietà è la via più adeguata per mettere a sistema l’azione di opere e persone che vogliano essere davvero utili allo scopo e segni della carità vissuta come comandamento sociale.
- I poveri non sono oggetti della pastorale della Chiesa ma soggetti attivi che provocano a trovare sempre nuove forme per vivere il Vangelo.
Così conclude Leone. Grande insegnamento, che fa tanta nostra farisaica presunzione.