Le recenti dichiarazioni di Margherita Cassano offrono un utile spunto di riflessione in tema di politiche migratorie

Margherita Cassano, primo presidente della Corte di Cassazione, ha detto pochi giorni fa che l’Italia deve includere i migranti offrendo loro un lavoro; non deve invece recluderli nei Cpr, escludendoli in partenza da ogni percorso di riscatto personale e integrazione sociale in Europa. Lo ha affermato a una manifestazione sulle problematiche del carcere, organizzata in chiave trasparentemente partizan dalla Regione Toscana e dall’Anci regionale, entrambe presiedute da esponenti del centrosinistra.



Non è quindi mancato chi ha eccepito un’ennesima sortita discutibile di un alto magistrato su un terreno politicamente sensibilissimo come quello delle strategie di gestione dei flussi migratori. Non è stata comunque la prima volta che Cassano ha espresso posizioni apertamente critiche verso le posizioni del Governo, a lato di ripetute decisioni giudiziarie contrarie ai decreti-migranti.



Per quanto tranchant, la prospettiva nuovamente perorata da Cassano non è diversa nel merito da quella sostenuta più volte in questo stesso spazio sul Sussidiario. L’occasione sembra quindi propizia per una nuova riflessione: di metodo politico-istituzionale prima che di merito socioeconomico. E il primo aspetto può essere risolto rapidamente: fino a che la gestione dei flussi migratori sarà brandita strumentalmente con finalità politiche – In Italia o in Europa – i migranti stessi saranno sempre le vittime annunciate, assieme alla salute civile della democrazia.

Guardando invece alla sostanza del problema – drammatica, sicuramente meritevole di essere fra le priorità di chiunque si ritrovi a governare il Paese o le istituzioni europee -, tutto è cambiato da quando l’Europa affrontò per la prima volta la questione migratoria: nel 2013 con gli Accordi di Dublino. Ammesso che lo fosse allora, oggi non è più una pura emergenza umanitaria: che l’Ue trovò facile delegare per una parte importante all’Italia, propaggine del Vecchio Continente nel “Mare Nostrum”.



Oggi i flussi migratori – dopo e come la pandemia – sono un fenomeno globale, inserito in una crisi geopolitica che molti chiamano “terza guerra mondiale”. E i Paesi Ue un tempo distratti e spazientiti (o peggio) di fronte ai segnali di allarme provenienti da Paesi come Italia o Grecia, si ritrovano ad affrontare in grave ritardo l’emergenza solo quando essa ha preso a premere sulla loro stessa stabilità politica e sociale interna. Di qui affannose politiche restrittive: peraltro le stesse che sono sempre a lungo negate e rimproverate all’Italia, al netto di atti di ostilità aperta e provocatoria come l’incidente di Lampedusa nel 2019, da parte di un’attivista tedesca poi eletta all’Europarlamento.

Un’Europa che sta ridefinendo per intero tutte le proprie strategie – probabilmente la sua stessa identità – ha il dovere di elaborare scelte serie, importanti e condivise sui flussi migratori. Ha l’obbligo di ascoltare la voce di chi europeo lo è già ed è – come ultimamente emerso in Italia in un referendum – sempre meno convinto dell’apertura indiscriminata delle frontiere a chi cittadino europeo vorrebbe diventarlo subito: facendo certamente valere la propria aspirazione a un futuro migliore rispetto ai Paesi lasciati alle spalle.

Ma un’Europa che è chiamata a rilanciare la propria “competitività” – continua a raccomandare il Rapporto Draghi – non può ignorare che i migranti sono portatori di valore: sì, anche economico. Sono spesso giovani già in possesso di una formazione di base e – quello che conta di più – animati da una volontà di cogliere appieno tutte le opportunità che venissero loro offerte: scolastiche o professionali.

Un’Italia che ogni giorno s’interroga sui suoi media sulla crisi strutturale dell’offerta di competenze per la nuova domanda di lavoro; oppure sull’emergenza sanità per carenza di medici e paramedici ha il diritto – prima che il dovere – di impostare politiche di accoglienza finalmente fuori dalle continue guerriglie a sfondo ideologico e possibilmente a un tavolo europeo dove gli sbarchi in Italia non siano più la contropartita per qualche deroga al rigorismo finanziario di Bruxelles (l’autrice della denuncia è stata Emma Bonino, ministro degli Esteri italiano firmataria dei patti di Dublino).

È un “compito a casa” che avrebbe già dovuto essere svolto – in Italia come in Europa – nella concezione e nello sviluppo del Recovery Plan. I Pnrr (tutti, non solo quello italiano) avrebbero dovuto dare centralità a grandi “piani-giovani”, che avrebbero potuto abbracciare congiuntamente sia quelli sbarcati dal Mediterraneo, sia i giovani Neet (l’Italia rimane il secondo Paese europeo, con due milioni di cittadini nella fascia d’età 15-34, senza lavoro e fuori dai percorsi di istruzione o formazione professionale). Non è stato fatto, mentre 120 miliardi di finanza pubblica sono stati destinati – in Italia – al Superbonus 110.

Se stavolta l’Europa potrà dire o dare qualcosa all’Italia sulle politiche finanziarie sarà però perché l’Italia potrà portare in Europa anni di esperienza – forse più sociale che politica – nell’accoglienza dei migranti.

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