50 anni dall'Atto di Helsinki: storico accordo che promosse dialogo e diritti umani durante la Guerra Fredda, modello ancora attuale.

Il primo agosto di cinquant’anni fa fu sottoscritto l’Atto finale di Helsinki, a conclusione di due anni di lavoro della Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa (CSCE). Vi parteciparono 35 Paesi: quelli dell’Europa dell’Est e dell’Ovest, l’Unione Sovietica, gli USA, il Canada e la Santa Sede. L’evento ha valore storico ed esemplare che pochi hanno ricordato, e pochissimi non faziosamente.



Vale la pena considerare il giudizio espresso da Leone XIV: “Animati dal desiderio di garantire la sicurezza nel contesto della guerra fredda, 35 Paesi inaugurarono una nuova stagione geopolitica, favorendo un riavvicinamento tra Est e Ovest. Quell’evento segnò anche un rinnovato interesse per i diritti umani, con particolare attenzione alla libertà religiosa, considerata come uno dei fondamenti dell’allora nascente architettura di cooperazione da ‘Vancouver a Vladivostok’.



La partecipazione attiva della Santa Sede alla Conferenza di Helsinki – rappresentata dall’arcivescovo Agostino Casaroli – contribuì a favorire l’impegno politico e morale per la pace. Oggi, più che mai, è indispensabile custodire lo spirito di Helsinki: perseverare nel dialogo, rafforzare la cooperazione e fare della diplomazia la via privilegiata per prevenire e risolvere i conflitti”.

E conflitti, dopo la Seconda guerra mondiale, ce n’erano stati eccome. Non in Europa, divisa in due parti e “pacificata” sotto gli ombrelli della NATO e del Patto di Varsavia, ma in Corea (1949), a Cuba (1961), quando si arrivò a un pelo dallo scontro USA-URSS e quindi dalla terza guerra mondiale. E poi l’escalation della deterrenza atomica (oltre alla gara nello spazio).



La dichiarazione di Helsinki

In questo contesto la CSCE tentò di trasformare il sentimento di insicurezza e di sfiducia dominante, determinato dal cosiddetto equilibrio del terrore, in un processo per la sicurezza europea basata anche sulla cooperazione tra gli Stati, sul rispetto dei diritti umani e della libertà religiosa (per cui si adoperò con successo la Santa Sede), in ultima analisi basata su un concetto di pace più ampio e adeguato della sola assenza di guerra.

Sulla sicurezza, intesa come riconoscimento dei confini, puntava la Russia di Brežnev, desiderosa di consolidare la sua area di influenza. Restia era, in un primo momento, l’America di Nixon e Kissinger, che preferivano vedersela direttamente con l’URSS (come adesso, reciprocamente, Putin vuole vedersela direttamente con Trump)… Fu soprattutto l’italiano Aldo Moro a convincere Nixon.

La Conferenza si fece. Al tema della sicurezza e dei confini furono aggiunti il tema della cooperazione economica e quello dei diritti umani. Fu importante il protagonismo dei nove Paesi della Comunità economica europea e il ruolo dei Paesi non allineati, fino a quello di Jugoslavia e Romania, Paesi comunisti, ma decisi a una certa autonomia da Mosca.

L’Atto finale non era giuridicamente vincolante, ma era pur sempre l’espressione di impegni solennemente e unanimemente assunti cui eventualmente richiamare gli inadempienti. Giovanni Paolo II lo fece più volte. Il tema dei diritti umani fu una base importante per movimenti come, ad esempio, Charta ’77 in Cecoslovacchia, Solidarność in Polonia, dissidenti dell’URSS (fino a Sacharov, premio Nobel, che in era Gorbačëv poté tornare in patria).

A modesto giudizio di chi scrive, valore e successo di Helsinki sono dovuti a una serie di fattori concomitanti:

1) la presa d’atto e la non messa in discussione degli assetti geopolitici dell’Europa dopo la guerra mondiale;

2) quindi la sostanziale libera unità dell’Occidente, speculare a quella mica tanto libera dell’Est;

3) la fase ancora creativa e dinamica della Comunità europea (non c’era ancora l’UE), capace di vero protagonismo, cioè di fare politica, vale a dire muoversi con una visione ampia nutrita insieme di realismo e di valori ideali; e quindi

4) la prevalenza della politica sull’economia e la finanza.

Ritrovare lo “spirito di Helsinki” è un lavoro per ricostituire questi fattori andati, con la globalizzazione, in buona parte – per fortuna non del tutto – a ramengo.