In agosto, nel pieno del tempo di vacanza, è bene comprendere il significato del riposo, soprattutto per un cristiano
In questo tempo sospeso che si colloca al cuore del mese di agosto, l’illusione che sia sufficiente astenersi dalle cose solite per riposarsi è da sempre dietro l’angolo. Divertirsi, diversificare, distrarsi non sono sinonimi di riposo, ma di allontanamento – certamente auspicabile e legittimo – dalla fatica e dal peso della vita.
Mettere distanze, tuttavia, non basta. Perché il riposo che il cuore cerca è la riconciliazione profonda con quello che l’uomo è, con l’umanità che ha e con i fatti che gli sono accaduti. Il riposo è, per dirla con Ireneo di Lione, il tentativo di ricollocare le proprie vicende terrene tra le vicende del cielo.
I cristiani affermerebbero, con una certa efficacia, che riposarsi è trovare un posto per la propria storia nel corpo della storia di Cristo. Il senso di quello che accade in un anno, da settembre ad agosto, non coincide con una comprensione o con una spiegazione razionale, bensì con il riconoscimento che tutto è stato abbracciato, tutto è stato amato, tutto – in fondo – è stato davvero salvato.
Ma che cos’è questa salvezza che uno può anelare anche ad agosto?
È il superamento di uno scandalo, lo scandalo dell’umano. In questo senso la Chiesa ha mostrato davvero lungimiranza e profezia nel collocare al cuore di questo tempo la festa dell’Assunzione, il ricordo di Maria che viene assunta in cielo col proprio corpo. Quel corpo, quella carne finalmente assunta, rappresenta la possibilità per ogni donna e ogni uomo di far pace con ciò che è, di guardare le ferite che ha, di non temere più i segni umani che definiscono il cammino di ciascuno.
La salvezza è smettere di avere paura perché esiste un amore che è più grande anche della paura. Salvezza è non temere di guardarsi, di non affrontare fino in fondo le conseguenze delle scelte, degli errori e delle emozioni vissute.
L’uomo spirituale, qualcuno direbbe anche l’uomo religioso, non cede alla tentazione materialistica di ridurre se stesso a un bene da consumare in quanto perfettamente funzionante. L’uomo spirituale non si preoccupa di Dio, ma si occupa dell’umano perché l’umano è il dono concreto e personalissimo che Dio ha fatto a ognuno.
Come appaiono piccoli, visti da questo punto della realtà, gli ombrelloni, i parcheggi che non si trovano, il traffico infinito, gli alberghi, le malghe di montagna, i rifugi. Piccoli non perché brutti, piccoli non perché non desiderabili per il ristoro, ma piccoli perché è il cuore a essere grande, a volere un’esperienza in cui ciascuno possa riconoscere di essere voluto, preferito, risanato.
Mishima, questo imponente narratore estetico di origine giapponese, amava sostenere che vivere è inutile se le parole che pronunciamo e le opere che compiamo non bruciano nella carne.
Il problema del mondo contemporaneo, stretto in paradigmi del passato che non riescono più a comprendere un presente che non è caotico ma soltanto figlio di un altro ordine, è la progressiva rimozione della carne e della carnalità dall’orizzonte della politica. I corpi, e le scelte su di essi – si tratti di fine vita o di sessualità -, sono confinati nel privato.
L’uomo di oggi non si riposa perché non ha più una parola che brucia da dire sulla carne, sul corpo, sul suo essere umano. Egli teme l’intelligenza artificiale perché è impacciato con la propria ragione, si stanca perché nutre e organizza la propria vita corporea per essere performante rispetto alle aspettative della società, del sistema, di se stesso.
Com’è difficile amare quel che semplicemente si è! Com’è difficile imparare dalle rughe e dallo sguardo in cui ciascuno si imbatte al mattino davanti allo specchio!
Il contrario di una vita disumana, di una vita scandalizzata dal dato umano, non è una vita ritirata o una vita trattenuta, non è una vita sublimata o accondiscendente verso ogni pulsione o desiderio. Il contrario di una vita umana è una vita che ci assomigli. Si va in vacanza, ci si riposa, per ritrovare il proprio volto, il proprio desiderio più vero e costruire, guardando quel volto come si guarda la scatola di un grande puzzle, il disegno che esso raffigura, l’immagine che rappresenta.
Uno torna al lavoro davvero riposato non per le foto che ha o per le cose che può raccontare, non per i biglietti aerei staccati o le serate da ricordare: uno torna al lavoro, o allo studio, davvero riposato se sa di più chi è, che cosa davvero vuole, se conosce di più i lineamenti del proprio volto ed è desideroso di costruire una vita che gli assomigli.
Certo, perché questo accada non bisogna temere i terremoti. Il terremoto che sconvolse Gerusalemme nel momento della morte di Cristo, il terremoto di un amore che mette a soqquadro la propria emotività, il terremoto di una morte, di un dolore, di una malattia. La gente giudica i terremoti altrui, stupidamente inconsapevole che ogni terremoto è premessa di resurrezione, di bellezza, di un nuovo inizio. Stupidamente inconsapevole che sono i terremoti a modellare la terra.
A ben vedere, ad agosto si impara proprio questo: che tutta la vita non è altro che l’inchino a un solo attimo di terremoto. L’istante in cui, tra le macerie degli eventi, uno vede davvero sé e, per la prima volta, dice sorpreso: questo è quello che Dio ha fatto, rallegriamoci ed esultiamo.
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