Chiarezza post-vacanziera

I tramonti malinconici di settembre sono una consegna precisa. Il senso di vuoto percepito non è smarrimento, ma il nostro io che chiede compimento

Settembre, con la sua luce dolce che risveglia una nostalgia che brucia, una nostalgia che pensavi di aver perso molto tempo fa. I tramonti diventano agguati: arrivano sempre prima e ti annunciano che l’estate è finita e che la promessa fatta dai lunghi giorni e dal sole di mezzanotte non è stata mantenuta: non abbiamo fatto quella passeggiata, ci siamo persi l’ultimo tramonto, i baci sono finiti quando erano più teneri, tutte le gioie non sono state sufficienti. Né i lunghi pranzi con gli amici, né il romanzo di mille pagine di uno scrittore russo, né le parole sincere che non sentivi da tempo.



Niente è stato sufficiente nemmeno quest’estate. Torni a casa o al lavoro e per alcune ore ti assale la grande lucidità che ci visita sempre dopo le vacanze. La vita quotidiana appare così com’è, senza il camuffamento dell’abitudine: eccessiva e piccola allo stesso tempo.

Di solito uccidiamo questo malessere, questa solitudine in cui ci lascia il ritorno alla normalità in nome del realismo, della nostra condizione di adulti, della ragione, della fede. La uccidiamo con diverse devozioni.



E lo facciamo spesso come chi si asciuga con vergogna le lacrime dopo un addio, cercando di farle sparire rapidamente affinché non lascino traccia. Mentre lo facciamo, parliamo del prezzo dell’affitto, dell’ultima lotta di potere in azienda, di qualsiasi cosa pur di spegnere il più rapidamente possibile la nostalgia che brucia.

Siamo incapaci di comprendere questo malessere, che è come la nostra ombra: ci sentiamo colpevoli, malati. E per questo non capiamo i nostri figli, i giovani. Qualche settimana fa James Parker, giornalista di The Atlantic dedicato alla corrispondenza dei lettori, ha ricevuto una lettera di una sola riga: “Ho 19 anni e ho paura di morire da solo, qualche consiglio?”.



Sole al tramonto
Fonte: Pexels.com

Parker, con buona volontà, gli ha risposto che non era solo. E ha aggiunto: “Tu hai il controllo. La tua vita e le tue decisioni ti appartengono. Sei tu il capo. L’altra faccia dell’isolamento è l’autonomia. Quindi rivendicala. Esci là fuori. Goditi le esperienze. Fai cose di cui andare fiero (…). Come mi disse una volta un amico a Londra quando mi vide disperato: ‘Sii forte, amico. Sii felice’”.

L’adulto Parker, quando soffrì di quel malessere che contraddistingue gli esseri umani, uccise la nostalgia e superò “la malattia” stringendo i denti. Le chiavi della reazione di Parker sono state descritte con precisione da Cesare Maria Cornaggia durante il recente Meeting di Rimini. Lo psichiatra ha sottolineato che “oggi si parla tanto di adolescenti, ma per lo più se ne parla definendoli ‘problematici’, ‘diversi’ o ‘incomprensibili’. A me pare che siamo noi adulti incapaci di vederli, di ‘ri-conoscerli’. (…) Troppo spesso guardiamo a ciò che ‘fanno’ come espressione di una ‘patologia’, e invochiamo varie statistiche per dimostrare che sono “malati”.

Il problema è che noi adulti abbiamo ucciso “la chiarezza post-vacanziera”: “il vuoto o l’angoscia non sono segni di un di-meno, ma spie della nostra esperienza originaria”, sottolineava Cornaggia.

La ferita che ci apre la luce di settembre, il malessere che ci domina tutti e che ci porta a cercare rifugi identitari in questo cambio di epoca, è l’espressione di un “io” che sembra dormiente. Tutto è crollato tranne questo io, questa è la “grazia” che ci regala questo tempo.

Un io che può sempre essere evocato, chiamato. “Un “io” che ha bisogno di un incontro relazionale vero che lo evochi. L’io non è riducibile a nessun suo antecedente, neppure ad una ipotetica malattia che non c’è, semmai l’io ha bisogno di essere evocato nell’incontro con un fascino che provochi un sussulto tale da farlo emergere”.

Questi tramonti di settembre ci chiedono di non perdere mai la tristezza che ci permette di non uccidere l’uomo che si nasconde sotto il nostro petto.

 

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