Per smarcarsi dalla polarizzazione crescente occorre imparare dall'esperienza (e non dal sentito dire) e seguire i testimoni (non gli imbonitori)
Adesso preoccupa oltremodo la polarizzazione, cioè la crescente divisione in curve di ultras graniticamente e bellicosamente contrapposti da distanze incolmabili. La polarizzazione guadagna spazio nella politica, nella società, nei media, nei social. Anche nella Chiesa, denuncia papa Leone XIV nella sua prima intervista, concessa alla vaticanista di Crux, Elise Ann Allen, pubblicata nel volume Leon XIV. Ciudadano del mundo. misionero del siglo XXI.
Nella politica (italiana, ma non solo) questa polarizzazione viene da lontano, dal combinato disposto della caduta del Muro di Berlino, di Mani Pulite e del progetto di democrazia dell’alternanza portato avanti da maestri della dottrina politica e padroni del vapore. La Caduta mutò le priorità statunitensi. Le inchieste di fatto azzerarono il “centro”, cioè la Dc e i suoi quattro alleati e lasciarono in piedi le estreme (post) fasciste e (post) comuniste.
I “maestri” e C. introdussero un bipolarismo che di fatto si fece sempre più bellicoso. Nel 1994 Achille Occhetto rimpicciolì falce e martello per alimentare la Quercia e definì il suo schieramento progressista “gioiosa macchina da guerra”. Tanto per usare parole di pace. Fino alle recenti penose risse alla Camera e allo scambio di accuse reciproche, dopo l’omicidio di Kirk negli Usa, della serie “gli odiatori siete voi”. “No, siete voi”.
La politica succube dei meccanismi comunicativi non guarda quasi più al centro per conquistare consenso tra i moderati, ma parla il linguaggio delle estreme per contrapporsi senza sfumature.
Il fenomeno della polarizzazione nei social, è stato da tempo studiato. In particolare, è risaputo che gli algoritmi dei social ripropongono all’utente contenuti che assecondano e incentivano le sue inclinazioni, preferenze, (pre)giudizi. E siccome pare che al nostro cervello piaccia aver ragione, ecco pronta la spirale che ti conduce alla “camera di risonanza”. Qui la diversità è il nemico da sopprimere, non c’è spazio per la pluralità dialogica, risuona solo il verbo della tribù.
Se no, botte da orbi. Anche quando l’argomento è… i cugini di Gesù. Su siti cattolici qualificati si riportavano argomentate tesi di qualificatissimi studiosi della materia; nello spazio dei commenti volavano pesanti reciproci insulti tra gente che della materia non sapeva un tubo, ma sosteneva una tesi a spada tratta.
Parole come armi: in un mondo in guerra, non è un per modo di dire.
Bisogna anche tener conto che c’è l’altra faccia della medaglia della polarizzazione: ed è la massa non so se maggioritaria (forse sì) ma certo prevalentemente silenziosa che della politica se ne fotte e non va a votare, e sui social mette la foto della cena con la sua classe (intesa come anagrafica) e del piattone di trippa.
Ma perché più facilmente indulgiamo allo scontro anziché alla cooperazione? Perché all’assenteismo anziché alla responsabilità? Queste domande devono stare insieme.
Da parte di chi ci pensa e ci studia, vengono suggeriti possibili interventi per favorire una de-polarizzazione. Regole e cambio della logica degli algoritmi per i social; leggi elettorali equilibrate e bipartisan in politica, ecc. Ben venga un civile dialogo su questo.
Ma “prima” viene, credo, qualcosa d’altro. Qualcosa che interessi la nostra persona, la nostra postura umana, Qualcosa, più precisamente, che ci faccia stimare e amare noi stessi, il nostro io, più del potere. Perché del potere turlupinante e alienante trattasi quando scivoliamo nel girone dell’odio o nella palude dell’indifferenza.
Forse ci sarebbe utile acquisire due cose che in fondo nessuno può impedirci: imparare dall’esperienza (e non dal sentito dire, cioè dalla propaganda del potere) e seguire i testimoni (non gli imbonitori). È l’unico antidoto all’alienazione, premessa della polarizzazione e poi della violenza. Un antidoto trascurato spesso, non incoraggiato e sostenuto.
Per esempio: molti dedicano tempo e impegno nel volontariato nei più svariati ambiti, impegnandosi a favore degli altri: ma questa esperienza spesso non diventa cultura, non cambia la persona nel suo moto di giudicare e di porsi nell’esistenza personale e nel mondo. Quanto alla facilità con cui siamo presi da quelli che una volta si chiamavano falsi maestri, non servono parole.
L’esperienza chiama in causa le esigenze vere della persona nell’impatto con la realtà, cioè, fa emergere il seme di un giudizio liberante. E il testimone ci fa sentire attratti, affascinati, dalla prospettiva del compimento della nostra umanità. Fino a scoprire che “altro è un bene per me”.
Per avere un’idea di come questi possa concretamente accadere, suggerisco la (ri)lettura del bell’editoriale di Giorgio Vittadini sul Cristo di don Camillo. E morta lì.
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