Nei prossimi dieci anni nel nostro Paese ci saranno oltre sei milioni di lavoratori in meno rispetto a oggi: un problema anche per il welfare

Due eventi caratterizzano, dalla notte dei tempi, la vita di ogni uomo: questi sono la nascita e, alla fine di un percorso, la morte. Nei secoli, è stato elaborato, in epoche e contesti diversi, un vero e proprio mito dell’immortalità. A oggi è evidente, a livello empirico, che si continui a morire. Certamente grazie anche a progressi scientifici e a stili di vita più adeguati e sani, sempre più persone vivono a lungo e in buona salute. Non è più così scandaloso, per esempio, leggere sui giornali locali di festeggiamenti di arzilli centenari.



Dall’altra parte negli ultimi anni, forse negli ultimi decenni, sono diminuite fortemente le nuove nascite. Un fenomeno, questo, che colpisce complessivamente la gran parte dei paesi maggiormente sviluppati, ma l’Italia in particolar modo. In molti piccoli paesi, ad esempio, solo i nuovi italiani, gli immigrati di seconda generazione, garantiscono la possibilità di mantenere alcune classi scolastiche. Il fenomeno migratorio, quindi, parzialmente attutisce questo questo vero e proprio inverno demografico.



Due fenomeni, questi, che impattano sul sistema del mercato del lavoro e, in prospettiva, e in parte già oggi, anche sulla sostenibilità e sulla qualità del welfare state.

Probabilmente i giovani di oggi, in una sua accezione particolarmente estesa, avranno delle prestazioni sociali sicuramente peggiori delle precedenti generazioni.

Nei giorni scorsi, il Presidente dell’Inapp Natale Forlani, in audizione alla Commissione parlamentare d’inchiesta sugli effetti economici e sociali derivanti dalla transizione demografica, ha spiegato che nel prossimo decennio in Italia vi saranno ben 6 milioni di lavoratori in meno. Entro il 2060 la potenziale forza lavoro, tra 20 e 65 anni, diminuirà addirittura di circa un terzo con tutte le prevedibili conseguenze sulla sostenibilità economica e sociale del welfare e, più in generale, del funzionamento dello Stato.



Per contrastare questo fenomeno si dovrebbe, quindi, operare su almeno tre fattori. Aumentare la partecipazione delle donne al mercato del lavoro che è ancora troppo bassa, e non uniforme su tutto il territorio nazionale, potenziando, ad esempio, tutti quei servizi necessari per facilitare la conciliazione tra dimensione lavorativa e quella familiare.

Inoltre, creare percorsi per cui si allunghi la vita professionale, spostando così il momento della pensione. Viene da chiedersi se questo sia possibile in tutti i settori e con tutte le professionalità. Si pensi ai settori caratterizzati da lavoratori low skilled e in cui la prestazione fisica è fondamentale.

L’ultima dimensione da indagare è quella sulla capacità di riportare nel mercato del lavoro tutte quelle persone che oggi ne sono fuori e che non stanno cercando un lavoro né sono coinvolte in percorsi di reinserimento nel mercato del lavoro, in particolare i più giovani. Il rischio, infatti, è che il perdurare, in giovane età, fuori dal mercato del lavoro, almeno quello regolare, troppo a lungo possa portare progressivamente a uno stato di esclusione sociale e di povertà.

Il Governo, l’Europa, le parti sociali e tutti i soggetti interessati sono chiamati, quindi, già oggi, a lavorare per individuare soluzioni e strumenti sostenibili per cui le nostre vite, sempre più lunghe, siano anche dignitose sotto vari aspetti tra cui quelli, fondamentali per uno Stato moderno, che sono l’assistenza e la previdenza sociale.

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