Si chiama Regional Comprehensive Economic Partnership (Rcep) e la firma è arrivata ieri. È il più grande accordo commerciale di libero scambio tra i paesi dell’Asia-Pacifico, ma senza gli Stati Uniti, e vale il 30 per cento del Pil mondiale. Lo hanno firmato Cina, Australia, Nuova Zelanda, Corea del Sud, Giappone più i dieci Paesi Asean: Brunei, Laos, Myanmar, Malesia, Vietnam, Cambogia, Thailandia, Singapore, Filippine, Indonesia. L’inizio delle trattative va fatto risalire al 2012, poi la presidenza Trump ha segnato il ritiro degli Usa, ma non quello dei paesi alleati nell’area. “Sotto il profilo politico è una dimostrazione della sfiducia dei paesi asiatici verso gli Usa, ma certo non azzera le tensioni politiche nella regione né elimina la cooperazione militare in funzione anti-cinese tra molti di questi paesi e gli Usa” dice al Sussidiario Francesco Sisci, sinologo e giornalista, commentatore per varie testate in Asia e Usa.


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Balza all’occhio la firma di paesi che hanno paure della Cina e che sono alleati storici e militari degli Usa.

Infatti l’accordo dimostra i dubbi e l’incertezza esistenti in Asia sulla posizione degli Stati Uniti. Nel 2012, alla fine della presidenza Obama, gli Usa e molti di questi paesi avevano firmato un accordo più ampio e più articolato con l’America, ma la presidenza Trump lo cancellò subito.


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La Cina ne faceva parte?

No, non ne faceva parte, anche se non era esclusa in linea di principio. Quello che vediamo è che la Cina dimostra oggi di voler aprire di più i propri mercati, anche se non è pronta ad aprirli quanto gli Usa hanno chiesto.

Perché la firma è arrivata durante la transizione istituzionale americana?

Forse non c’è un progetto. Si tratta di un negoziato molto complicato. Ci si aspetta che il nuovo presidente eletto Biden rilanci l’accordo tra America e Asia, ma non si sa in effetti se lo farà, come lo farà e che continuità l’accordo firmato potrà avere.

Allora è scritto sulla sabbia?


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Il problema di fondo è che gli Stati Uniti sono divisi su vantaggi e svantaggi della globalizzazione. I finanzieri e i produttori di nuove tecnologie hanno raccolto enormi profitti dal processo di globalizzazione e ancora di più ne guadagnerebbero se la Cina si aprisse come vorrebbero. Ma la classe media, i lavoratori degli Usa sono stati schiacciati e marginalizzati da questa prima fase di globalizzazione. Quindi si tratterebbe di avere un programma complessivo per il rilancio dell’America e una maggiore integrazione dei mercati secondo regole condivise. Forse Biden potrebbe farlo, ma ad oggi tale piano non c’è. Questo rende complicato pensare oggi a un rilancio puro e semplice del vecchio Tpp.

Qual è il dato politico?

C’è un problema enorme di affidabilità strategica e commerciale da parte degli Stati Uniti in Asia. Non a caso i mezzi stampa cinesi considerano questo accordo come una vittoria politica al di là dei risultati commerciali. Esso dimostra che gli Stati Uniti non sono in un momento estremamente felice per quanto riguarda il commercio e gli accordi commerciali nell’Asia-Pacifico.

Le rivalità militari e strategiche?

Rimangono, anzi continueranno ad essere forti, dalla contesa nel Mar Cinese Meridionale ai diritti umani a Hong Kong o ai sospetti di penetrazione cinese in molti paesi dell’area.

Per non parlare di Taiwan.

Le questioni strategiche e militari con Taiwan rimangono. Di certo, però, passi avanti per un accordo di libero scambio regionale potrebbero smussare alcune tensioni.

Questa ratifica è un successo della Cina?

Sì, anche se va detto che il quadro in realtà è molto più complicato che in passato, non è in bianco e nero. La Cina se volesse davvero portare avanti in maniera positiva e vantaggiosa questa firma dal punto di vista strategico, dovrebbe a questo punto, forte di questa vittoria politica, mettere in sordina tante questioni di confine e politiche.

La lezione per Washington?

Il Rcep dimostra agli Stati Uniti che la questione cinese non è solo una questione militare o puramente di accordi commerciali da strappare in maniera bilaterale, ma è un problema che va affrontato a 360 gradi.

Secondo lei cosa farà Biden, al quale molti osservatori attribuiscono una posizione verso la Cina più intransigente di quella di Trump?

Credo che l’America abbia bisogno di un piano di rilancio complessivo. Le sue infrastrutture sono a pezzi, le scuole sono scadenti, in media al di sotto di paesi come la Germania o il Giappone. Infine la classe media sta sparendo, mentre vi sono ultra-ricchi che monopolizzano tutte le risorse. Questi ultra-ricchi dovrebbero essere i primi a capire che devono contribuire al rilancio del loro paese. Oltre a finanziare scuole e ospedali nel terzo mondo le varie fondazioni dovrebbero rilanciare scuole e sanità nelle periferie americane. Se questo partisse con un programma di lungo termine, allora si darebbe anche maggiore credibilità a nuove idee di aree di libero scambio e la competizione con la Cina sarebbe posta anche su altre basi. Pechino stessa potrebbe vedere l’esempio della potenza militare americana, ma anche l’esempio della forza di rilancio degli Usa, che è stata finora la vera grande capacità del paese.