Nella tarda serata di ieri il governo di Israele ha detto sì al piano Trump. È il punto di arrivo, e lo stop imposto, ad un cerchio che stava per chiudersi
In principio fu il 1948. Proprio così. La guerra su Gaza si ferma oggi, ma il metro di misura della vittoria e della sconfitta si misura, ancora oggi, proprio con quell’anno. Allora, gli Stati arabi furono sconfitti da Israele e i palestinesi, ma non tutti, furono cacciati via. Il calcolo finale fu di 750mila profughi palestinesi verso Gaza e l’Egitto, verso la Giordania, il Libano e la Siria.
All’inizio di quest’anno, quindi ad un anno e mezzo dal 7 ottobre 2023, dall’attacco di Hamas e dall’inizio della guerra israeliana su Gaza, un altro numero, il doppio dei profughi del 1948, si è profilato ai confini dell’Egitto. Un milione e mezzo di palestinesi di Gaza che Netanyahu e il suo governo, con l’impegno devastante dell’esercito, hanno cercato giorno dopo giorno di spingere fuori dalle proprie case e dalla propria terra, per andare altrove, ma necessariamente attraversando l’Egitto.
Quello che accade in queste ore, con l’accelerazione verso il cessate il fuoco a Gaza, si lega, come alcune fonti cominciano a far trapelare, con il timore e poi l’angoscia dei governanti egiziani. Quella enorme massa di profughi, infatti, sarebbe arrivata proprio in Egitto, per non andare altrove. Non in Giordania, in prospettiva alle prese con i profughi palestinesi dalla Cisgiordania. Non certo nel lontano Sudan e neppure in Libia, dove le trattative tra americani e potentati locali si sono arenate.
Anche perché la Russia, in presenza del conflitto con l’Ucraina ancora aperto, nulla ha fatto per convincere il generale Haftar, a Bengasi, suo amico, ad andare incontro agli interessi di Trump e del suo alleato Netanyahu.
Ecco allora che quella massa di individui, disperata ed affamata, che poteva superare le barriere di cemento sul confine di Rafah, è divenuta non più una eventualità lontana ma una realtà imminente. Una realtà che non poteva essere respinta sparando sui profughi palestinesi, perché il regime di Al-Sisi avrebbe perso la faccia all’interno del suo Paese e in tutto il mondo arabo. Il suo destino sarebbe stato segnato.
La “red line”, la linea rossa, stava per essere superata. Ed era questione di settimane, perché i carri armati israeliani avanzavano anche nelle strade della città di Gaza. Al-Sisi allora ha detto ciò che apparteneva al passato: “Israele è il nostro nemico”. Sullo sfondo la possibilità, reale, di una nuova guerra.

Tuttavia, affannosamente, per tutta l’estate scorsa, i mediatori egiziani e quelli del Qatar hanno bussato non solo alla porta di Hamas e di Israele, ma anche e sempre più a quella di Trump. Innanzitutto, per costringere Israele ad un cessate il fuoco immediato. Il piano Trump, tante volte annunciato, prende forma all’inizio di settembre.
Sono i missili israeliani sulla delegazione di Hamas che stava discutendo la bozza di quel piano, ed era riunita a Doha, in Qatar, a far comprendere all’Egitto, al Qatar, a tutti i Paesi arabi che Netanyahu, Smotrich e Ben-Gvir puntavano ormai, in modo chiaro e definitivo, a far saltare ogni trattativa, per completare la pulizia etnica di Gaza – anche a costo di portare a compimento un genocidio –, e all’annessione della Cisgiordania ad Israele. Un’occasione “storica”, “irripetibile”.
Era il 1948 portato a compimento, con lo svuotamento dei palestinesi dalle loro terre e l’esistenza di un solo Stato: Israele, “lo Stato ebraico”.
Mentre gli arabi aprivano gli occhi su questa realtà ormai imminente, all’interno di Israele l’opinione pubblica, anch’essa ormai conscia della strada intrapresa dal suo governo e dal suo esercito, non aveva la volontà di opporsi. Continuava a chiedere la liberazione degli ostaggi, ma considerava la pulizia etnica una possibilità che si poteva anche accettare. Di qui i sondaggi, inaspettatamente, favorevoli al governo.
Nel momento più alto della potenza militare israeliana, i missili su Doha hanno rotto l’incantesimo che tutto si potesse ancora aggiustare con le vecchie trattative. I Paesi arabi e quelli islamici hanno così chiesto a Trump di scegliere: fermare subito Netanyahu o altrimenti veder crollare i rapporti militari ed ancor più quelli economici tra Stati Uniti e larga parte del mondo.
Mentre l’altra parte del mondo, con i balbettanti Stati europei, non sarebbe mai stata un’àncora di salvezza, perché le sue strade e le sue piazze si riempivano di milioni di persone indignate per il comportamento israeliano a Gaza.
Di qui la corsa a creare un piano che imponesse uno “stop” alla guerra, alla pulizia etnica e al genocidio, negato a parole ma evidente a tutti.
Al di là di questo importante risultato, quello di Trump non è un piano di pace benevolo con tutti i palestinesi, ma siamo solo all’inizio e lo sanno anche a Washington, dove hanno già sperimentato, in questi ultimi anni terribili, l’errore di sottovalutare i palestinesi, gli arabi ed anche l’opinione pubblica internazionale.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.
