ADOLESCENTI IN CRISI/ Ricolfi: la scuola non c’entra, l’ansia viene da internet, serve più realtà

- int. Luca Ricolfi

Depressione, bullismo, disturbi alimentari: il disagio dei ragazzi nasce con i social. Agli adolescenti meglio dare cellulari senza internet. Servono gioco e più realtà

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Ansia, depressione, disturbi alimentari, iper-connessione alla rete, ritiro sociale. Sono solo alcuni dei comportamenti diffusi tra i giovani, percentualmente rilevanti, assieme a manifestazioni estreme come autolesionismo, tentativi di suicidio, tante volte riusciti, ma anche bullismo e baby gang che si scontrano violentemente tra loro o se la prendono con incolpevoli malcapitati. Il professor Luca Ricolfi, sociologo, docente universitario, editorialista di quotidiani nazionali, fondatore dell’Osservatorio Nord Ovest, presidente e responsabile scientifico della Fondazione David Hume, fa risalire al 2012 la svolta nel malessere giovanile, a soli due anni dal lancio sul mercato del primo cellulare dotato di collegamento internet e a pochi mesi dalla fusione tra Facebook e Instagram.

Ricolfi si rifà agli studi dello psicologo sociale americano Jonathan Haidt, autore del libro La generazione ansiosa, e spiega che “i disturbi psicologici e comportamentali dei giovani s’impennano dopo il 2012 e lo fanno in tutti i Paesi per i quali sono disponibili lunghe serie storiche di dati, come tutti quelli di lingua inglese e in tutto il Nord Europa”.

Può approfondire, professore?

Haidt si è chiesto come mai in quel periodo i ragazzi e le ragazze hanno iniziato a star più male e l’unica spiegazione plausibile, data la sincronizzazione dei disturbi, è che tutto dipende da qualcosa che è avvenuto ovunque in quegli anni. Ma l’unico fenomeno con queste caratteristiche è stato la diffusione dello smartphone e la conseguente massiccia presenza di ragazzi e ragazze sui social. I dati sono totalmente chiari. Si tratta di uno dei rarissimi casi nella mia carriera di sociologo in cui ho trovato una spiegazione inoppugnabile, un’evidenza fortissima.

Quali meccanismi collegano i social al malessere degli adolescenti?

I giovani passano sui social almeno 3, 4 ore al giorno, non per fare amicizia, ma per emergere, far valere il loro profilo, ottenere dei like. Si tratta di una competizione che molto raramente si può vincere, perciò genera insoddisfazioni e frustrazioni.

Sia nei ragazzi che nelle ragazze?

C’è una grande differenza, perché sono soprattutto le ragazze ad essere vittime di questi meccanismi.

Qual è la ragione?

È abbastanza semplice, anche se un po’ triste da dire. Di fatto, la competizione tra ragazze avviene su una sola dimensione, che, fondamentalmente, è quella della bellezza, del sex appeal, dell’avvenenza. Tra l’altro, uno degli strumenti di questa competizione è il cosiddetto sexting, cioè l’invio di immagini osé, sessualmente esplicite, a partner potenziali.

La competizione tra i maschi è diversa?

Oltre che per la bellezza, i maschi competono per forza, prestanza, risultati sportivi, trasgressività, che è apprezzata da molte ragazze, ma poi anche per la dominanza nel gruppo. Cioè, un maschio ha a disposizione un ventaglio di “carriere” in cui può cercare di emergere, mentre le ragazze ne hanno soltanto una, fondamentalmente, perché sono apprezzate soprattutto per la bellezza.

Che genera nuove frustrazioni?

Sui social, con decine o centinaia di migliaia di partecipanti, per ragioni puramente statistiche, quelle che possono emergere e vincere sono una piccola minoranza. Se l’asticella è così alta, per cui si deve avere un corpo perfetto, un volto splendido, essere dotate di sex appeal eccetera, chi può pensare di vincere? Pochissime. In una classe scolastica, forse nessuna. Da qui nasce una frustrazione che viene spesso erroneamente attribuita alla competizione scolastica.

Lei ha evidenziato anche l’invasione della pornografia sui social e il conseguente svilimento del corpo femminile.

È una questione che oggi sta esplodendo, perché c’è sempre maggiore consapevolezza. In proposito, voglio ricordare l’interessante libro di Lilli Gruber, dal titolo un po’ forte, Non farti fottere, che è un’analisi della pornografia. Perciò, di pornografia si parla, ma mi rammarico che non se ne sia parlato prima.

Quando?

Ricordo l’episodio accaduto nel 2017 alla giovane Tiziana Cantone, che si suicidò perché le sue foto osé, fatte consapevolmente, furono trafugate e circolarono su internet. Allora, la reazione della maggior parte delle persone è stata “dobbiamo sconsigliare agli adolescenti di mettere in atto questa pratica”.

Invece…

Si scatenò sui media una discussione del tipo “le ragazze hanno il diritto di farlo, è una cosa normalissima, non possiamo colpevolizzarle per questo”, come se il problema fosse colpevolizzare o no, mentre si trattava di evitare conseguenze così drammatiche. E mi spiace dire che la teoria che riteneva normale fare sexting fu difesa da un intellettuale che ha un grande seguito, come Roberto Saviano, che, per questa sua posizione, io considero un cattivo maestro.

Sui social i giovani rischiano di perdersi, fino a rimetterci la vita.

Sto analizzando i dati dei suicidi, dai quali emerge, in Italia come in America, che riguardano soprattutto la generazione Z. Però, se posso, vorrei dire anche una cosa sulla scuola.

Prego.

Se fossi un genitore di un adolescente, tenderei a dirgli “va bene la reperibilità, ma ti do un cellulare tradizionale, di quelli che non hanno il collegamento a internet”. Tra l’altro, costano pochissimo. Però, questa soluzione, che noi genitori potremmo adottare se avessimo un po’ di coraggio educativo, è impedita dalla scuola, perché, in base a un malinteso principio di trasparenza, ormai la scuola comunica sistematicamente attraverso internet con i ragazzi e le loro famiglie. Non c’è più il compito dato in classe, che ti scrivi sul quaderno e poi fai a casa; non c’è più il contatto faccia a faccia con i genitori, in cui l’insegnante spiega cosa va o non va in tuo figlio, ma c’è una comunicazione continua su internet di voti e compiti.

Quindi?

I ragazzi hanno buon gioco a dire “per ragioni scolastiche abbiamo bisogno del collegamento internet”. Perciò, la scuola ha tolto la possibilità d’intervenire su uno strumento che è dannosissimo per i figli e ha delle responsabilità almeno pari a quelle dei genitori.

Quali aiuti possono trovare i giovani, o che i genitori possono dare?

Distinguerei gli aiuti che possono esser richiesti da quelli che possono esser dati, perché vedo un’insistenza sempre più ossessiva sullo psicologo. Sembra quasi che gli adolescenti possano salvarsi soltanto con una massiccia introduzione di psicologi nelle scuole; cosa che, ammesso che sia sostenibile economicamente, non sta in piedi, semplicemente perché non abbiamo abbastanza psicologi per curare un malessere così diffuso. Invece, ciò che si può fare è comportarsi da adulti, ma soprattutto la scuola non deve comunicare attraverso internet. Quanto ai genitori dovrebbero, sino ad una certa età dei figli, in relazione alla loro maturità, fornire un cellulare senza accesso a internet.

È proponibile anche ai ragazzi?

Se capiscono che uno dei meccanismi che procura ansia, sofferenza e depressione è proprio la presenza in internet, i ragazzi stessi possono uscire dai social, usando il cellulare in modo più ragionevole. Si tratta di una scelta di autodifesa, come dimostrano le poche statistiche disponibili, che segnalano che il fenomeno è già in atto, seppur da parte di una piccola minoranza di adolescenti, che ha scelto e sta scegliendo di non stare sui social e di comperare telefonini di tipo tradizionale.

Altri suggerimenti alle famiglie?

Parlare con i ragazzi, se lo accettano, perché spesso queste ultime generazioni non hanno voglia di comunicare con i genitori e tendono a dare un’importanza enorme al gruppo dei pari.

Qualcos’altro da ripensare?

Rivalutare il gioco, l’interazione in presenza, tutto ciò che non avviene in rete, perché Haidt, nel suo libro La generazione ansiosa, dimostra che negli ultimi 30 anni c’è stato un crollo della vita off line, nel mondo reale, a favore di una sempre maggior presenza nei nuovi media.

Sembra che gli adulti facciano fatica a rendersi conto della situazione.

Anche i politici. L’unico partito che ha tentato di fare qualcosa, proponendo un disegno di legge, è Azione. Però è molto difficile cambiare le cose attraverso le leggi, è molto più facile prendere consapevolezza del problema e agire individualmente, perché le norme sono sempre aggirabili.

(Flavio Zeni)

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