L’alpinista Luca Sinigaglia ha perso la vita in Kirghizistan per cercare di salvare una collega. Un sacrificio compiuto fino alle estreme conseguenze

Morire sul Pik Pobedy, così si pronuncia in russo la vetta della vittoria. Lì, durante un generoso tentativo di salvataggio di un’alpinista russa, è morto l’alpinista italiano Luca Sinigaglia, di Melzo.

Il Pik Pobedy è la vetta più alta, 7439 metri, della catena del Tian Shan, che divide il Kazakistan dalla Cina e in parte dal Kirghizistan.



Queste bellissime montagne, per certi aspetti diverse dalle nostre Alpi (lì ad esempio si può trovare vegetazione più in alto che da noi), sono diventate solo di recente meta di spedizioni non solo di alpinisti russi, ma anche di quelli occidentali.

Può sembrare strano, ma i locali, kirghizi o kazaki, continuano per lo più a disdegnare l’alpinismo, considerando la montagna un luogo sacro, magico, anche tragico, da riservare al dio Tengri. Loro, i locali, le montagne preferiscono ammirarle dal fondovalle, anche perché non hanno necessità di portare il loro bestiame a pascolare sui monti, visto che subito davanti a loro si estende la grande steppa.



Poi può capitare, come è capitato a me la settimana scorsa, di sedere in aereo di fianco a una vecchia kirghisa che aveva chiesto al figlio, prima di morire, di accompagnarla in Svizzera per vedere se è vero che le Alpi elvetiche sono paragonabili a quelle del Tien Shan.

Il Pik Pobedy 7439 m (foto Maryliflower, Wikipedia)

Morire in montagna è possibile anche oggi, soprattutto dove, come da quelle parti, l’organizzazione dei soccorsi è ancora alle prime armi. Morire per salvare qualcun altro, però, è un ultimo segno che nella nostra società individualista c’è qualcuno per cui i cosiddetti valori di solidarietà non sono principi astratti, ma esperienza di vita, fino alla possibilità della morte.



Mi sono ricordato di quando celebriamo la Santa Messa: nel momento alto della Consacrazione, ricordiamo che Gesù è morto per tutti, senza distinzione fra ebrei e greci, ucraini e russi, israeliani e palestinesi.

Per la verità mi è anche venuto in mente uno dei monumenti più celebri del Cimitero monumentale di Milano, quello riservato alla famiglia di un notissimo capitano d’industria, titolare di una famosissima azienda che produce aperitivi. La tomba rappresenta un’ultima cena con Gesù e gli apostoli in grandezza più che naturale, in particolare Gesù ha tra le mani un’enorme coppa (evidente riferimento all’attività del defunto).

Quasi nessuno, però, osserva che alla base del grandioso monumento sta la scritta in latino: “Pro sibi et suis”, per sé e per i propri. Senza voler giudicare le pie intenzioni del noto industriale, credo che il sacrificio di certi uomini di montagna, a volte scomparsi in luoghi sconosciuti, a volte senza neanche avere una tomba, ci richiama di più al sacrificio di Cristo di tutti gli splendidi monumenti del mondo.

PS: l’autore del monumento è Giannino Castiglioni, che ha realizzato, tra l’altro, anche una delle porte principali del Duomo.

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