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Home » Cronaca » Anna Maria Scarfò “Violentata dai 13 ai 15 anni”/ “Poi volevano mia sorella e…”

  • Cronaca

Anna Maria Scarfò “Violentata dai 13 ai 15 anni”/ “Poi volevano mia sorella e…”

Davide Giancristofaro Alberti
Pubblicato 31 Gennaio 2020
bruciata viva torna a casa per i figli

violenza di gruppo

Anna Maria Scarfò “Violentata dai 13 ai 15 anni”. La giovane eroina calabrese a Napoli per raccontare la sua storia e aiutare altre donne

La storia di Anna Maria Scarfò è di quelle crude, terribili, orribili, impensabili solo da immaginare. E’ un’eroina che ha subito violenze di ogni tipo quando era poco più una ragazzina, quando aveva solo 13 anni, e quando è stata violentata a ripetizione da quello che pensava fosse il suo ragazzo e da un gruppo di uomini riconducibili alla ‘ndrangheta. Annamaria, originaria della Calabria, aveva deciso di subire in silenzio, spinta dalla paura ma anche dal fatto di vivere in una zona complicata, dove spesso e volentieri l’ignoranza prevale sulla ragione. E lo si è capito quando la Scarfò si è ribellata, uscendo allo scoperto a seguito delle minacce del branco che la violentava, che ora puntava alla sorella più piccola. “Tutto cominciò il giorno del mio compleanno – racconta Annamaria ai microfoni del Corriera della Sera – compivo 13 anni ed ero andata in chiesa a fare le prove del coro. Domenico, si chiamava così il ragazzo che mi piaceva, venne a salutarmi e mi convinse a salire in auto. Quel ragazzo che fino ad allora era stato sempre gentile con me cambiò improvvisamente atteggiamento. Io gli chiesi dove stessimo andando e a quel punto mi arrivò il primo schiaffo”.


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ANNA MARIA SCARFÒ “IL MIO RAGAZZO MI PORTÒ IN UN CASOLARE…”

Iniziò così una storia di violenze, soprusi e orrore: “Mi portò in un casolare dove c’erano anche altre persone tra cui alcune appartenenti a cosche di ‘ndrangheta. Poi non ricordo più nulla, tranne l’odore della terra e delle arance, perché mi scaraventarono fuori dall’auto a botte. A quel punto mi fecero violenza a turno tenendomi le mani e i piedi. Mi dissero che avrebbero ucciso me e la mia famiglia si avessi raccontato a qualcuno quello che era successo. Da quel giorno cominciarono le torture mi usavano per scambiarsi favori, per sfogarsi, per divertirsi: mi sono ritrovata legata ad un albero, soffocata nell’acqua, picchiata, violentata in tutti modi ed ero solo una bambina. In paese tutti sapevano. Forse lo sapevano anche a scuola, forse lo sapeva anche la mia famiglia ma nessuno mosso un dito”. Poi Annamaria riuscì a ribellarsi: “Questa storia andò avanti per due anni poi a un certo punto mi dissero: “Di te non ce le facciamo più nulla, portaci tua sorella piccola”. A quel punto scattò in me un sentimento nuovo: non avrei mai permesso che facessero a mia sorella quello che avevano fatto a me e quindi presi il coraggio a due mani e andai a denunciare tutto”.


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ANNA MARIA SCARFÒ E IL PROCESSO LUNGO 17 ANNI

Peccato però che quando uscì allo scoperto, il paese iniziò ad emarginarla, soprannominandola la malanova, la cattiva notizia, la rovina famiglie. Ma lei non si diede per vinta, portò alla sbarra i suoi aguzzini e li fece condannare, seppur dopo 17 anni. Nel frattempo, il trasferimento in una località segreta, la vita sotto la scorta, e quella ragazzina costretta a crescere così brutalmente, che si ritrova una donna. Oggi Annamaria Scarfò continua ad essere additata nel suo paese, ma non da parte dei media e della maggior parte dell’opinione pubblica. Ha voluto fare della sua storia un esempio per aiutare altre donne, e alcuni giorni fa è stata invitata da Maria Anna Ricciardi, a parlare al quartiere San Giovanni a Teduccio di Napoli, dove vige la legge della camorra e dove diverse donne sono sopraffatte. Una di esse ha trovato il coraggio di denunciare il marito: «L’ho fatto anche per i miei figli – ha detto – sono ferite che non si curano. Passano gli anni e il ricordo e il dolore sono sempre vivi». «L’amore ti accoglie, non ti prende in giro, non ti dà schiaffi, non ti ammazza. – dice Anna – Oggi abbiamo avuto la prova tangibile che questo posto e questa comunità hanno un senso perché sono un luogo di resistenza».


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