Giovedì 15 dicembre Christine Lagarde ha fatto pressioni sull’Italia perché ratifichi la riforma del trattato Mes. Un intervento sbagliato e pericoloso, secondo Stelio Mangiameli, ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Teramo, dal quale “traspare un certo desiderio – o la minaccia – di riprovare la via della speculazione contro l’Italia, come la Germania di Schäuble fece con la Grecia”.
Il Governo può difendersi in due modi, secondo Mangiameli. Il primo è quello di non ratificare la riforma del Mes. Il secondo è quello di ricondurre il Fondo all’interno dell’Unione Europea e del bilancio europeo.
Giovedì scorso Christine Lagarde ha fatto pressioni sull’Italia perché ratifichi il Mes. È stato un intervento legittimo?
La presidente della Bce non ha competenza sul tema del Meccanismo europeo di stabilità (Mes) e sulla decisione politica di uno Stato membro dell’Ue sulla ratifica, o meno, del trattato di revisione del Mes. La Bce è responsabile della politica monetaria relativa alla moneta unica, mentre il Mes è un’istituzione intergovernativa esterna all’Ue, anche se sotto molteplici aspetti dotata di contiguità.
Allora perché questa interferenza?
Dalle dichiarazioni di Lagarde, la cui appartenenza a determinati ambienti internazionali mi pare indiscussa, traspare un certo desiderio di riprovare, o quanto meno di minacciare di riprovare la via della speculazione contro l’Italia.
Riprovare la via della speculazione: la sua è un’affermazione molto forte. Ce la può spiegare?
Per capirlo dobbiamo tornare all’origine del Mes. Quando esplose la crisi economico-finanziaria nel 2009 in Europa, quasi contemporaneamente all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, la struttura dell’Unione economica e monetaria era molto debole, perché gli strumenti di un’autentica fiscalità europea mancavano del tutto, il sistema bancario europeo era ancora frammentato e i mercati finanziari non perfettamente integrati.
D’accordo. E poi?
All’epoca si poteva rafforzare il sistema dell’Unione Europea e, in effetti, si era cominciato a farlo con il Meccanismo europeo di stabilizzazione finanziaria (Mesf) e il Fondo europeo di stabilità finanziaria (Fesf). Questi fondi avevano la loro base giuridica nell’art. 122, par. 2, Tfue, per il quale “Qualora uno Stato membro si trovi in difficoltà o sia seriamente minacciato da gravi difficoltà a causa di calamità naturali o di circostanze eccezionali che sfuggono al suo controllo, il Consiglio, su proposta della Commissione, può concedere a determinate condizioni un’assistenza finanziaria dell’Unione allo Stato membro interessato. Il presidente del Consiglio informa il Parlamento europeo in merito alla decisione presa”.
E la crisi rientrava certamente nelle “circostanze eccezionali”.
Esatto. Per questo motivo i fondi, su questa base giuridica, costituivano strumenti importanti di diritto europeo. Improvvisamente però si cambiò rotta per una decisione del Consiglio europeo del 25 marzo 2011. All’art. 136 Tfue fu aggiunto un paragrafo: “Gli Stati membri la cui moneta è l’euro possono istituire un meccanismo di stabilità da attivare ove indispensabile per salvaguardare la stabilità della zona euro nel suo insieme. La concessione di qualsiasi assistenza finanziaria necessaria nell’ambito del meccanismo sarà soggetta a una rigorosa condizionalità”. Questa vicenda rappresentò una frattura dell’ordinamento europeo e comportò lo spostamento dei soldi che gli Stati membri avevano versato all’Ue per alimentare il Fesf al Meccanismo europeo di stabilità (Mes), esterno all’Unione.
E come commenta questa decisione?
La finalità fu eminentemente politica.
Perché?
Perché le istituzioni europee – Consiglio, Commissione, Parlamento europeo – avrebbero dovuto salvaguardare il principio di eguaglianza degli Stati membri (art. 4 Tue). Invece, in quel modo, esternalizzando il Meccanismo, alimentarono la speculazione di uno Stato membro nei confronti degli altri.
Dunque è questo, di fatto, il ruolo effettivo del Mes.
Sì, perché con il Mes la situazione asimmetrica degli Stati membri di fronte alla crisi si poteva solamente accentuare e alcuni Stati potevano lucrare a discapito degli Stati in difficoltà. Come è accaduto con la Grecia che, a causa di questo sistema infernale, ha visto decuplicato il debito pubblico, aumentati oltre misura i provvedimenti di austerity e, per avere il sostegno finanziario del Mes, ha di fatto dovuto svendere le sue infrastrutture – ferrovie e aeroporti – alla Germania. Wolfgang Schäuble, all’epoca ministro delle Finanze tedesco, ha delle gravi responsabilità in questa operazione speculativa.
E noi che cosa c’entriamo?
Questo progetto speculativo lo si voleva tentare già all’epoca nei confronti dell’Italia, ma il nostro Paese ha uno spessore ben diverso da quello della Grecia e, anche se le misure di austerity sono state pesanti, la nostra struttura economica e industriale ha resistito. Alla fine del 2012 l’Italia era già in ripresa e a giugno del 2013 l’Ue aveva chiuso la procedura d’infrazione per eccessivo disavanzo.
Eravamo partiti dalla Lagarde.
Le confermo la mia opinione.
In ambito europeo c’è stata successivamente una qualche riflessione sul Mes e su un suo eventuale recupero nel quadro istituzionale europeo?
Sì, c’è stata. Apparve subito che il Mes era stato un errore clamoroso e lo spostamento del Fondo dal bilancio dell’Ue al Mes un’occasione perduta per rafforzare il processo di integrazione. La Commissione intervenne in modo deciso e nel suo Blue print for a deep and genuine EMU. Launching a European Debate (COM(2012) 777 final/2, 30.11.2012) affermò la necessità di una riforma profonda del coordinamento delle politiche economiche, dal momento che, con riferimento ai processi di legittimazione, si riteneva che il modo di procedere doveva essere quello comunitario, non quello intergovernativo.
E secondo lei in questo modo la Commissione poneva in discussione il Mes?
Sì, perché scriveva già a quel tempo – cito testualmente – “non è chiaro dove si situi la responsabilità nei confronti del Parlamento di un livello intergovernativo europeo che cerca di influenzare le politiche economiche dei singoli Stati membri della zona euro”. La Commissione richiedeva di sottoporre il Mes, attraverso l’incorporazione nei trattati europei, al controllo del Parlamento, e la modifica del trattato avrebbe dovuto comportare anche il rafforzamento della responsabilità democratica della Bce nella sua veste di autorità di vigilanza sulle banche.
A che cosa avrebbe dato luogo questo sviluppo?
La Commissione sembrava porre le premesse per una politica fiscale (di bilancio) europea finanziata, con risorse proprie derivanti da un’imposizione europea (“un potere impositivo mirato e autonomo”) e la creazione “di una struttura analoga ad un ‘Tesoro’ dell’Uem in seno alla Commissione”, al fine di “dare una direzione politica e accrescere la responsabilità democratica”, in modo che l’Unione venisse posta in condizione di resistere a eventuali shock economici.
E che cosa è rimasto di queste buone volontà?
Questo disegno venne avallato dalla relazione dei cinque presidenti (Completing Europe’s Economic and Monetary Union, pubblicato il 12 giugno 2015) e la Commissione lo riprese in un successivo documento (Reflection Paper on the Deepening of the Economic And Monetary Union, COM(2017) 291 del 31 maggio 2017), e portò alla proposta di trasferire le funzioni economico-finanziarie del Mes in capo al “Tesoro” e a trasformare il Mes nel Fondo monetario europeo, dopo la sua integrazione nel quadro giuridico dell’Unione. A questo scopo venne anche presentata una proposta di regolamento da parte della Commissione (COM(2017)827) che avrebbe risolto la coesistenza tra le istituzioni europee e un meccanismo intergovernativo permanente come il Mes che dava luogo a molteplici aporie decisionali, di responsabilità democratica e di rispetto dei diritti fondamentali.
È in capo a questa riforma che il Mes avrebbe incontrato l’Unione bancaria?
Sì, perché l’incorporazione del Mes avrebbe garantito nel quadro istituzionale europeo anche il sostegno comune (backstop) al Fondo di risoluzione unico, il cosiddetto Meccanismo di risoluzione unico (Srm) che avrebbe rafforzato la credibilità delle azioni del Comitato di risoluzione unico e accresciuto la fiducia nel sistema bancario. In questo modo, in sostanza, il Fondo monetario europeo si sarebbe affermato come un solido organismo di gestione delle crisi nell’ambito dell’Ue, in piena sinergia con le altre istituzioni.
Però le cose non sono andate in questo modo. La proposta della Commissione venne accantonata per andare nella direzione di una revisione o riforma del trattato del Mes.
Esattamente. A seguito delle discussioni tenutesi nelle riunioni dell’Eurogruppo – in particolare dicembre 2018 e giugno 2019 –, e dei vertici euro del 14 dicembre 2018 e del 21 giugno 2019, sono stati definiti i termini generali della riforma del Mes, che nel trattato di revisione mantiene la sua attuale struttura di accordo intergovernativo.
Dunque è un’involuzione grave.
Sì, perché vuol dire che per gli interessi di alcuni Stati membri sono stati traditi i principi europei ed è stata paralizzata la possibilità di migliorare sul piano finanziario la fiscalità europea e il bilancio dell’Ue. Infatti gli emendamenti proposti dal trattato di revisione riconoscono ulteriori funzioni di rilievo al Mes e implicano un ulteriore spostamento in sede intergovernativa di poteri che non si giustificano nelle mani dei governi degli Stati sottoscrittori, mentre avrebbero un ben diverso significato in quelle delle istituzioni europee.
In che modo la riforma sancisce questo spostamento di potere?
Gli emendamenti amplierebbero il mandato del Mes sulla governance economica degli Stati membri. Infatti si consentirebbe al Mes di “seguire e valutare la situazione macroeconomica e finanziaria dei suoi membri, inclusa la sostenibilità del loro debito pubblico e di effettuare analisi di informazioni e dati pertinenti” (art. 3). Inoltre, grazie all’accordo dell’aprile 2018 tra la Commissione e il Mes, relativo alle loro relazioni di lavoro nel contesto dell’assistenza finanziaria agli Stati membri della zona euro, la struttura di governo del Mes verrebbe coinvolta nella valutazione della sostenibilità del debito degli Stati membri, fornendo una base giuridica esplicita per la “cooperazione all’interno e all’esterno dell’assistenza finanziaria”. Infine, avendo reso più precisi i criteri di ammissibilità e di condizionalità, potrebbe sussistere una maggiore difficoltà per gli Stati membri nell’accesso all’assistenza finanziaria, senza contare anche il pericolo che il consiglio di amministrazione del Mes possa richiedere un margine aggiuntivo se lo Stato membro ha prelevato fondi dallo strumento.
E quanto al sostegno del Fondo di risoluzione unico?
L’affidamento al Mes non rafforza l’Unione bancaria, perché inframmette forme intergovernative con forme comunitarie. Infatti lo strumento di sostegno assumerebbe la forma di una linea di credito rotativa, in base alla quale il Mes potrebbe fornire prestiti al Comitato di risoluzione unico.
In sintesi, professore, a suo avviso il Mes è un problema o no?
Il Mes è stato un grande problema, soprattutto per la Grecia, e questo trattato di revisione è pericoloso, perché insiste su uno strumento di cui peraltro oggi non c’è più bisogno. Invece, il trasferimento del Fondo all’Unione Europea, come progettato nel 2012 dalla Commissione, rappresenterebbe un sicuro passo in avanti del disegno politico europeo.
Lagarde non ha solo fatto pressione sull’Italia perché ratifichi la riforma, ma è intervenuta nello stesso giorno in cui il comunicato della Bce ha ribadito la riduzione del 15% nell’acquisto dei titoli di debito pubblico (programma App). Come commenta?
Anche questo messaggio di Lagarde è scorretto, perché piega la politica monetaria della Bce all’intento di voler costringere uno Stato membro a percorrere una via di finanziamento che questo non intende e non vuole percorrere. Nonostante l’aggravio del debito pubblico dovuto alla pandemia, il debito pubblico italiano resta più che sostenibile.
Non bisognerà anche ridiscutere il Patto di stabilità, attualmente sospeso grazie all’azionamento della clausola di salvaguardia?
Certo. Ed è un altro elemento che rende fuori luogo il messaggio della Lagarde. Ciò che è certo è che il nuovo Patto non sarà affatto simile al precedente e in questo senso è schierata anche la Francia di Macron, per cui non sarà necessario, neppure dopo la cessazione della politica di acquisto dei titoli da parte della Bce, ricorrere al Mes.
Perché dice che non dobbiamo preoccuparci per il nostro debito pubblico?
Il nostro debito rimane appetibile proprio per i successi avuti dall’Italia negli ultimi due anni, e anche se al momento c’è un rallentamento della nostra economia, comunque minore di quello tedesco, i titoli italiani possono fornire con una spesa pubblica leggermente maggiorata – a causa dell’improvvida politica dei tassi della Bce –, una giusta soddisfazione, in primo luogo ai risparmiatori italiani, e poi anche a quelli esteri che credono nell’Italia e che sono tanti.
Nel question time del 14 dicembre Giorgetti ha parlato di “un’istituzione in crisi e per il momento in cerca di una vocazione”. Una riserva giustificata?
Certamente. L’Italia e il suo Governo devono insistere per cambiare il Mes. A mio avviso, su questo, oltre alla maggioranza convergerebbe anche il M5s, che già a suo tempo con il Governo Conte 1 si era opposto alla sottoscrizione del trattato di revisione.
Ma se ratificare non significa ricorrere ad alcun finanziamento, che cosa dobbiamo temere?
Il problema è squisitamente di politica europea ed esattamente di politica del processo di integrazione europea, e comporta sempre un’implicazione sulla sovranità nazionale. Sottoscrivere il Mes nel 2012 ha significato disperdere la sovranità statale a favore non delle istituzioni europee, ma di alcuni Stati che hanno la pretesa di speculare sugli altri Stati. Ricondurre il Fondo all’Ue e al bilancio europeo, come nel caso del Next Generation Eu, significa che la sovranità che gli Stati membri trasferiscono, continuano a gestirla insieme attraverso le istituzioni europee. Non mi sembra una differenza di poco conto.
Cosa succede se l’Italia non ratifica il trattato di revisione?
Il trattato di revisione non entra in vigore e il Governo italiano può chiedere che si riapra la negoziazione per riprendere il regolamento del 2017 e ricondurre il Mes all’interno dell’ordinamento dell’Unione.
Intanto è partito il carillon dell’Italia “rimasta sola”. In realtà, neppure la Germania ha ancora approvato la ratifica. Quindi?
La Germania, dopo la sentenza pilatesca della sua Corte costituzionale, ora è pronta a ratificare il trattato di revisione del Mes. Ma questo non vuol dire nulla.
Per noi intende?
Certo. Quando è convenuto, anche un solo Stato membro ha fatto saltare trattati ben più importanti. Ricordiamoci del Trattato sulla Comunità europea di Difesa del 1954 e, di recente, del Trattato costituzionale del 2004, bloccato prima e accantonato poi, perché non garbava alla Francia e all’Olanda.
Che cosa dovrebbe fare adesso il Governo?
Ora l’Italia ha la possibilità di guidare il processo di integrazione e l’azione europea, negando la ratifica del trattato di revisione del Mes. A mio avviso questa è un’occasione veramente importante e il Governo Meloni deve avere il coraggio politico di andare fino in fondo.
Ma è nostro interesse?
Gli interessi nazionali e l’interesse generale dell’Unione Europea, qui, coincidono.
(Federico Ferraù)
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