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Home » Esteri » Ucraina » BATTAGLIONE AZOV/ “Il loro destino ci dice che non possiamo (solo) inviare armi”

  • Ucraina
  • Russia
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BATTAGLIONE AZOV/ “Il loro destino ci dice che non possiamo (solo) inviare armi”

Edoardo Canetta
Pubblicato 19 Maggio 2022 - Aggiornato alle ore 06:41
Mariupol, Ucraina

Mariupol, evacuazione soldati ucraini dall'acciaieria Azovstal (LaPresse, 2022)

Che fine faranno i combattenti della milizia Azov che si sono arresi ai russi del Donbass? In una guerra la sorte dei prigionieri non è mai assicurata

Alla fine si sono arresi. Hanno obbedito al comando supremo, al presidente che ha detto che al Paese servono “eroi vivi”. Sì, ma dopo che si sono consegnati al nemico, restano vivi? Per i russi e il loro presidente, oltretutto, non sono eroi, ma criminali nazisti che con la loro organizzata ostinazione gli hanno rovinato la festa, quella del 9 maggio.


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Il destino dei prigionieri di guerra dipende sempre da tante questioni che però, alla fine, si riducono ad una: li teniamo in vita, finché servono. Nei tempi antichi, e a volte anche in tempi più recenti, i prigionieri di guerra servivano come forza lavoro a basso costo, come schiavi. In certi casi servivano come ostaggi. In altri non servivano a nulla o era considerato impossibile mantenerli vivi, e così erano soppressi.


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In un diario di partigiani del Verbano, che mia madre mi fece leggere da giovane, trovai la storia, assurda, di due maestrine di Intra che durante una gita sulla montagna sopra la città capitarono per caso in un nascondiglio segreto dei partigiani. Era evidente che non erano spie dei nazi-fascisti, però ormai avevano, involontariamente, scoperto una base strategica; una volta tornate a casa, si poteva essere sicuri che non avrebbero rivelato a nessuno il loro segreto? Così, nonostante avessero subito fraternizzato coi giovani partigiani, i capi, dopo un drammatico confronto, decisero che dovevano essere eliminate. Lo racconta, ancora col cuore spezzato, uno di questi capi, maledicendo la guerra che obbligherebbe a prendere queste decisioni.


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Ora, i difensori dell’acciaieria Azovstal, feriti e sani, fanti del battaglione Azov e dei marines ucraini sono nelle mani dei russi, o meglio, dei separatisti russi del Donbass. Quelli che li accusano di atrocità commesse dalle loro parti. Risulta difficile dire che “sono in buone mani”. Qualcuno pensa che in fondo potrebbero essere “protetti” dall’opinione pubblica mondiale. Se è vero che alcuni di loro si sono macchiati di crimini contro le popolazioni filorusse del Donbass, sai che cosa gliene importa a questi ultimi della “attenzione internazionale”.

Putin ha detto che verranno trattati secondo il diritto internazionale. Questo, vedi Norimberga, prevede anche la pena di morte. Infatti, non a caso, il presidente della Duma si è già attivato perché non si faccia uno scambio di prigionieri che coinvolga quelli dell’Azovstal.

Giudicare i crimini di guerra non è, evidentemente, cosa facile per i tribunali militari. Di solito i criminali sono quelli del nemico. Massacri, anche di civili, ad esempio, a causa dei bombardamenti, possono essere giudicati come non punibili, perché compiuti per esigenze strategiche, o perché qualche bomba meno intelligente delle altre ha sbagliato accidentalmente il bersaglio. Ricordo che negli anni 80 ho avuto la possibilità di visitare l’Accademia militare di West Point. Cosa che consiglio a tutti. In un locale c’erano dei plastici che ricostruivano le battaglie, vinte, dall’esercito americano. Non c’era per questo la battaglia del Little Big Horn, ma, stranamente, quelle di Hiroshima e Nagasaki che decretarono la fine della Seconda guerra mondiale. Mi spiegarono che è vero che quelle “strane battaglie” procurarono quello che sappiamo, ma che quel “sacrificio” (degli altri) salvò la vita a centinaia di migliaia di soldati americani che sarebbero morti per conquistare il Giappone difeso dai suoi irriducibili combattenti.

Arrivato poi in Kazakhstan negli anni 90 scoprii che a circa 30 chilometri da Karaganda c’era, nella località Spassk, un enorme campo di detenzione per prigionieri di guerra della Seconda guerra mondiale (tedeschi, giapponesi, rumeni, italiani, ecc.). Lì erano sepolti, in enormi fosse comuni, migliaia di soldati morti, tra cui 158 italiani, per lo più della Cuneense. Più tardi fui coinvolto nelle indagini per il processo di beatificazione dell’artigliere alpino Andrea Bordino, entrato dopo la guerra al Cottolengo come fratel Luigi. Nell’inchiesta riguardante il periodo passato da lui a Spassk risultò che alcuni suoi compagni, esasperati dai morsi della fame, erano arrivati a nutrirsi della carne di un soldato rumeno, loro compagno di sventura. I prigionieri tedeschi, quelli rimasti vivi, poterono lasciare Spassk solo nel 1954.

Da questi e da molti altri esempi si può facilmente capire che il destino dei soldati di Mariupol, e di molti altri prigionieri, non sarà senza problemi. Probabilmente sarà anche nostra responsabilità, oltre che inviare armi, anche inviare osservatori internazionali neutrali che assicurino una giustizia non puramente vendicativa. Quanto lavoro c’è ancora da fare per chi ama la pace!

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