Ha avuto una larga risonanza nella stampa, anche non specializzata, la scoperta pubblicata lo scorso maggio sulla prestigiosa rivista americana Science, di un batterio lungo un centimetro. La ricerca è stata realizzata grazie alla collaborazione di ben dodici gruppi scientifici, in parte statunitensi e in parte francesi, coordinati dall’americano Shailesh Date, dell’Università di San Francisco. “È come imbattersi in un uomo alto come l’Everest” ha commentato un altro autore, dato che le dimensioni di un normale batterio si aggirano attorno al micrometro (un decimillesimo di centimetro) o poco di più.
Naturalmente la scoperta rimanda a due interrogativi: da un lato cosa limiti normalmente le dimensioni di un batterio ai valori menzionati, e dall’altro come questa nuova forma batterica, alla quale è stata attribuita la denominazione di Thiomargarita magnifica, riesca ad aggirare questi vincoli. A questo riguardo è anche opportuno precisare che tale forma batterica si presenta in realtà come un filamento, lungo appunto circa un centimetro, ma con un diametro di soli 20 micrometri circa.
Sono molti i fattori che si ritiene limitino le dimensioni dei batteri tipici a uno o pochi micrometri: un aspetto critico ben noto è legato ai vincoli diffusionali, in quanto la diffusione passiva avviene attraverso la superficie cellulare, ma la quantità di sostanze che è necessario scambiare con l’ambiente è proporzionale al volume, talché al di sopra di un certo volume cellulare la superficie non è più sufficiente a garantire la quantità necessaria di scambi.
Un altro fattore è legato alle esigenze imposte dalla sintesi delle proteine. Rammentiamo che in base alla logica molecolare che governa gli organismi virtualmente tutte le funzioni sono sostenute da proteine, e l’informazione genetica necessaria per la sintesi di ciascuna di esse è contenuta in corrispondenti tratti di DNA, detti geni, mentre il genoma è l’insieme del patrimonio genetico che ogni organismo vivente possiede. Inoltre la sintesi delle proteine ha luogo a livello dei ribosomi, associazioni molecolari di proteine e di RNA, un acido nucleico simile al DNA.
Ora, un altro fattore limitante la grandezza di un batterio è che la quantità di ribosomi necessari per far fronte alle esigenze di sintesi proteica cresce in misura più che proporzionale al volume cellulare, al punto che al di sopra di un certo volume la cellula non potrebbe contenere più la quantità necessaria di ribosomi.
Infine, poiché i sistemi enzimatici che in un batterio producono energia chimica (sotto forma di adenosina trifosfato: abbreviato in ATP) sono alloggiati sulla membrana che racchiude la cellula, al di sopra di una certa dimensione critica la superficie e quindi la dimensione della membrana risulterebbe insufficiente per garantire il necessario apporto energetico.
Come ci si poteva aspettare, gli scopritori di questo micro organismo gigante hanno dimostrato una serie di adattamenti che gli consentono di far fronte alle esigenze metaboliche legate alla sua dimensione. Per esempio, esso possiede un largo vacuolo centrale che spinge il citoplasma in stretta contiguità alla membrana cellulare, riducendo così i tempi della diffusione chimica. Altre strutture peculiari osservate e che si ritiene abbiano un ruolo adattativo sono la presenza di sistemi di membrana che si trovano anche internamente alla cellula, strettamente impaccate a dare tipici granuli, e che contengono un gran numero di ribosomi, grandi quantità di DNA e dei sistemi enzimatici deputati alla sintesi di ATP.
Al riguardo del contenuto di DNA, è stato in particolare osservato che questo batterio presenta un grado di poliploidia sorprendentemente elevato. Con questo termine si intende la presenza in una cellula di molteplici copie del genoma completo. Tale fenomeno è frequentemente riscontrato negli organismi eucariotici. Gli eucarioti sono forme di vita costituite da cellule che, contrariamente ai batteri tipici, possiedono una compartimentazione interna, dove i compartimenti più evidenti (ma non gli unici) sono i mitocondri (organuli formati da sistemi di membrana dove sono localizzati i sistemi di produzione dell’ATP) e il nucleo, che contiene il corredo genetico. Le dimensioni lineari delle cellule eucariotiche sono variabili, ma normalmente sono superiori di almeno un ordine di grandezza rispetto a quelle dei tipici batteri (detti procarioti), e quindi il loro volume è normalmente più grande di almeno 1000 volte. Tutti gli organismi pluricellulari macroscopici, animali e vegetali, che osserviamo correntemente sono formati da cellule eucariotiche. Negli eucarioti il genoma tipico è diploide: esistono cioè due copie del genoma completo e quindi di ciascun gene, anche se non raramente si osservano eucarioti poliploidi, in particolare tra le piante, sebbene raramente in questi casi la poliploidia porti a più che una decuplicazione del normale genoma. Ebbene, nel batterio Thiomargarita la poliploidia comporta la presenza di oltre 700000 copie di genoma completo per ogni cellula! In conclusione, tutte le caratteristiche descritte sono plausibilmente correlate alle nuove esigenze che emergono con le singolari dimensioni di questa cellula, in particolare alla necessità di effettuare la sintesi proteica in una misura proporzionata alle sue stesse dimensioni.
Resta da valutare quale sia stata la spinta evolutiva che ha determinato la comparsa di un tale organismo. Gli stessi autori non si sono pronunciati al riguardo, ma hanno piuttosto analizzato i meccanismi adattativi che esso ha adottato. In realtà, anche altre specie unicellulari procariotiche possiedono dimensioni molto più grandi di quelle tipiche, ma comunque molto al di sotto della lunghezza di un centimetro; oppure esistono organismi filamentosi anche più lunghi di un centimetro ma composti da parecchie cellule procariotiche.
In ogni caso, sono due le osservazioni che in conclusione ci sembra opportuno suggerire. La prima è che con ogni probabilità Thiomargarita non rappresenta una forma di transizione da procarioti ad eucarioti, nonostante l’aumento di dimensioni e la poliploidia, dato che molti dei suoi adattamenti sono sui generis e non riscontrati negli eucarioti. La seconda è che la scoperta qui descritta mette in evidenza un importante concetto che riguarda l’ambito microbiologico e al quale gli autori stessi brevemente accennano: si può affermare, in sostanza, che la nostra conoscenza attuale del mondo microbico sia ancora soltanto la piccola punta di un iceberg, e che moltissimo deve essere ancora scoperto in termini di nuove forme e meccanismi adattativi, come il presente studio, ma anche altri, rivelano con chiarezza.