Bellezza aumenta gli stipendi solo con QI medio-basso, secondo studio LSE. Manager meno intelligenti premiano l'attrattiva fisica per istinto evolutivo
Una recente ricerca condotta dalla London School of Economics mette in luce una dinamica sorprendente: la bellezza tende a favorire stipendi più alti rispetto a quelli dei colleghi meno avvenenti, ma solo se il loro quoziente intellettivo non supera la media e l’analisi, basata su un campione di 17.000 cittadini britannici nati nel 1958 e monitorati nel corso della vita, mostra che bellezza e intelligenza interagiscono in modo inaspettato nel mondo del lavoro, in pratica, chi è bello ma non particolarmente brillante guadagna di più, al contrario, quando all’estetica si sommano alte capacità cognitive, il cosiddetto “premio estetico” tende a ridursi.
I dati – raccolti tramite il “National Child Development Study” – mostrano che il divario salariale a favore dei belli resiste per anni, ma si annulla tra i soggetti con QI più alto; gli insegnanti hanno valutato l’aspetto dei bambini a 7 e 11 anni, e queste stime sono state poi incrociate con i redditi percepiti in età adulta (33, 42, 47, 51 e 55 anni) e secondo l’autore principale dello studio, Satoshi Kanazawa, il fenomeno è stato confermato anche su un campione di 20.000 cittadini statunitensi, per cui l’effetto della bellezza si attenua nei soggetti più intelligenti, quasi come se l’ingegno mentale cancellasse il vantaggio derivante dall’aspetto fisico.
La spiegazione dei ricercatori si basa sulla psicologia evolutiva: in epoche antiche, i nostri antenati selezionavano i partner soprattutto in base a segnali visivi legati alla riproduzione – un meccanismo che, pur essendo oggi anacronistico, continua a influenzare le decisioni anche in ambito professionale – e di conseguenza, i datori di lavoro con livelli cognitivi medio-bassi, spiegano gli autori, tendono ancora oggi a favorire – anche inconsciamente – i dipendenti più attraenti.
Al contrario, manager con intelligenza superiore sembrano più capaci di ignorare questi segnali visivi e Kanazawa mette in evidenza che in contesti lavorativi semplici, un volto gradevole può ancora influenzare le decisioni su assunzioni e promozioni, ma in ambienti dove il lavoro richiede alta competenza, il fascino esteriore perde importanza; l’intelligenza, insomma, prende il sopravvento.
Bellezza e intelligenza: il paradosso salariale tra estetica e ingegno
Un altro elemento emerso dallo studio sull’influenza della bellezza riguarda le preferenze tra colleghi dello stesso sesso: secondo i dati, anche soggetti eterosessuali mostrano maggiore simpatia verso colleghi fisicamente attraenti – un comportamento che riflette, secondo Kanazawa, l’istinto primordiale di allearsi con coloro ritenuti geneticamente “validi” – e questa predisposizione, spiegano i ricercatori, può distorcere i processi decisionali sul lavoro, soprattutto nei settori a bassa complessità cognitiva – come vendite o servizi – dove la bellezza e intelligenza vengono valutate in modo deviato.
Le conclusioni dello studio da un lato, confermano che il nostro cervello non ha completamente superato i condizionamenti evolutivi, ma dall’altro, mostrano come l’intelligenza agisca da filtro protettivo, capace di ridurre l’impatto dei pregiudizi visivi ma, comunque, rimane un punto fondamentale: chi possiede sia talento che bellezza rischia paradossalmente di essere penalizzato, non riuscendo a vedere riconosciuto appieno il proprio valore.
La sfida da affrontare, ribadiscono gli autori, è quella di creare meccanismi di valutazione del merito che vadano oltre gli automatismi, costruendo ambienti di lavoro in cui il criterio della competenza riesca a prevalere sulla bellezza esteriore.