Diversi lo ricordano di certo. Giovanni Bissoni (1953-2023). È stato dal 1995 al 2010 assessore regionale emiliano-romagnolo alla sanità (la sanità più esaltata, “alternativa” nella propaganda mediatica e politica alla Lombardia). I più intransigenti oppositori continueranno a contestare la “sua” sanità statale pubblica. Il suo pensiero era più sofisticato.
Sta di fatto, per farla breve, che Bissoni prese in mano un deficit mostruoso: il 40% del deficit sanitario nazionale (di cui era causa da sola la sanità emiliano-romagnola, a metà degli anni 90) e riuscì a farlo rientrare, sia pure con non pochi sacrifici e stratagemmi. Andrebbe ricordato anche solo per questo. In squadra con altri contribuì a formare una vasta classe di dirigenti e manager della sanità diffusasi in Italia. Oggi scarseggiano. Io lo stimavo, così come tanti altri, pur essendo all’opposizione. Ho passato dieci anni di vita politica a dialettizzare con lui, a creargli problemi. E, credetemi, per sua stessa ammissione gliene ho creati non pochi, anche grazie a molti amici “consulenti” e competenti. Fossi stato tra i decisori politici di sinistra, avrei fatto fare a lui – e non a Speranza – il ministro. Aveva competenze che pochi hanno sfiorato.
E aveva idee chiave. Si sarebbe certamente fatto odiare, ma avrebbe affrontato, con la pandemia, il nodo irrisolto dei medici di famiglia, obbligandoli a fare squadra (problema che lui pose molto anzitempo, oltre vent’anni fa).
Di fronte ad un problema di bilancio immenso quale aveva l’Emilia-Romagna quando diventò assessore, e non potendo più quindi “regalare” tutto a tutti – come facevano le vecchie Usl guidate dalla politica irresponsabile – cominciò a porsi, tra i primi se non per primo, il problema di un ripensamento organizzativo dell’offerta di servizi sanitari e ospedalieri che superasse l’ospedale “generalista”, per basarsi su modelli di specializzazione clinica e organizzativa (in gergo è il modello “hub & spoke”). Con lui si cominciò a puntare, faticosamente, sui servizi territoriali (ancora oggi nodo irrisolto, come la pandemia ha mostrato). Non c’è dubbio che quella ospedaliera fosse una riorganizzazione sperimentale, da testare e modificare. Ma l’avviò. Parimenti spinse per la formazione di manager qualificati e responsabili.
Anche nel campo medico operò perché ci fosse una crescita professionale non solo clinica. Serviva responsabilizzare tutti sulla spesa sanitaria, sulla qualità delle prestazioni e sul render conto di quanto si realizzava. Rosy Bindi copiò dall’Emilia-Romagna. Le parole chiave diventano ricerca e, soprattutto, evidenza scientifica, sulla base della quale ripensare anche le riorganizzazioni ospedaliere (un reparto di maternità che operi pochi casi all’anno diventa un pericolo, anziché una risorsa). Molti medici e primari – e non pochi sindaci – ancora oggi non glielo perdonano. Tuttavia questo percorso era ed è, per molti aspetti, inevitabile in un contesto di scarsità di risorse ma anche di progresso scientifico. Con politiche avanzate e rigorose di accreditamento (altrove, al tempo, solo agli albori) mantenne presente il privato nel sistema sanitario, premiandone le eccellenze, contrariamente alla vulgata di una sanità emiliana esclusivamente statalista. Certo, su questo c’è chi potrebbe obiettare al presunto e diffuso pedaggio politico di un’affiliazione o una vicinanza “partitica”, ma il privato non è affatto scomparso nella regione della sanità pubblica. Anzi.
Restava ben presente – nelle discussioni con lui – e resta tuttora irrisolto il nodo di come finanziare il sistema sanitario: con la tassazione generale (questo lui teorizzava), con assicurazioni o pagando, i più abbienti, le prestazioni? Il nodo non è risolto in prospettiva, se non con una miscela confusa e instabile. E spesso ingiusta.
Fu in quella stagione bissoniana che si dette il via in Emilia-Romagna a idee che hanno preso corpo dopo a livello nazionale, come la creazione di una rete, denominata “Sole”, per tutti i medici di famiglia, che è antesignana del fascicolo sanitario elettronico oggi in vigore. È ovvio dire che ci furono resistenze.
Il confronto con la sanità lombarda, nella stagione tra Formigoni ed Errani, fu acceso. Non mancarono colpi bassi, faziosità e anche volute disinformazioni. Però credo che sia stato un confronto altamente proficuo per tutti. Fu una stagione esaltante per molti aspetti e possiamo ora dirlo col senno del poi. La competizione tra Regioni ha pagato, ha spinto al meglio. Bissoni accettò in prima persona la sfida. Temo che oggi, da anni, non ci sia più nulla del genere. Sono venuti meno, in un modo o in un altro, i protagonisti di quella stagione.
Con Bissoni ci scambiavamo idee anche sul ciclismo. Se ne era appassionato non più giovane e diventò fortissimo sulle due ruote. Fu lui a suggerire alla mia segretaria quali indumenti “ciclistici” regalarmi. Mi disse che stavo facendo egregiamente il mio mestiere di consigliere regionale. Non ho avuta tale gratificazione nemmeno dagli amici. E mi stupì una volta che mi confidò, in totale sincerità, che non ne poteva più di fare l’assessore.
La sua morte improvvisa mi lascia tramortito. Fu io ad avvisarlo per primo della morte di Enzo Piccinini, chirurgo del Sant’Orsola, in quel lontano maggio del 1999. Bissoni è un altro pezzo anche della mia vita che se ne va. Perché siamo fatti di tutto ciò che abbiamo incontrato, in qualunque modo. È confrontandomi con persone come lui, di elevata serietà, rigore e competenza, che ho dovuto studiare, imparare, superare l’improvvisazione e il mero esternare slogan, di cui vivono oggi la maggior parte dei politicanti. Così serio e rigoroso era ancora al telefono, quando lo sentii non tantissimo tempo fa. Ti sia lieve la terra, Giovanni.
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