La Colombia che si affaccia per la prima volta nella sua storia ai quarti di finale di Coppa del Mondo (gioca domani sera contro i padroni di casa del Brasile) ha una storia che porta nel cuore e che metterà sul terreno di gioco di Salvador. Un nome, e un numero di maglia: la 2 di Andres Escobar. Strappato troppo presto a questo mondo, a soli 27 anni: un ragazzo di Medellin, che alla città e all’Atletico Nacional aveva dedicato vita e carriera. Era un difensore centrale, Andres; dominava e guidava il reparto arretrato con una naturalezza e una leadership innate. Si mormora che Arrigo Sacchi, che se l’era trovato di fronte nella Coppa Intercontinentale del 1989, avesse chiesto a Silvio Berlusconi di comprarglielo due minuti più tardi. All’epoca Andres aveva 22 anni; avrebbe giocato il Mondiale in Italia, perdendolo per le follie del suo portiere René Higuita. Prima volta che la Colombia arrivava in una fase finale; quattro anni più tardi i Cafeteros sbarcavano negli Stati Uniti con la nomea della grande sorpresa. Pronta, secondo molti, addirittura a sollevare la coppa. Avevano battuto 5-0 l’Argentina, avevano un gruppo eccezionale; in difesa lui, Escobar. E fu lui a “tradire”: dopo la sconfitta iniziale contro la Romania, la Colombia incrociava i padroni di casa. Al 35’ Andres si gettò su un cross basso proveniente da sinistra per anticipare l’attaccante, e infilò Oscar Cordoba. Tragedia: Earnie Stewart replicò in apertura di ripresa, il secondo gol mondiale di Adolfo Valencia arrivò soltanto al 90’. La Colombia, che avrebbe dovuto stupire, tornava a casa subito. Il 2 luglio del 1994 Andres Escobar fu ucciso da dodici colpi di pistola sparati da Humberto Munoz Castro, un’ex guardia del corpo, all’esterno di un locale di Medellin nel quale il difensore e la fidanzata stavano cenando. La morte sarebbe sopraggiunta più tardi in ospedale, suscitando grande clamore e commozione in tutto il Paese. Francisco Maturana, leggendario allenatore della nazionale, ebbe a dire in una famosa intervista che la Colombia era “un manicomio permanente”; all’assassino furono dati 43 anni di galera, ma dopo 11 venne rimesso in libertà tra le proteste di tutti. Sulla morte di Escobar si sono dette tante cose; che avesse pagato per l’autogol (l’assassino, disse la fidanzata, lo derise gridando “goooolll!!!” alla maniera dei telecronisti sudamericani), che l’autorete fosse costata parecchi soldi agli scommettitori (altri testimoni riportano che la frase di Munoz Castro fosse stata “grazie per l’autogol”), che in realtà il calcio c’entrasse ben poco e si trattasse di una storia inerente al cartello della droga di Medellin (alcuni elementi della nazionale, tra cui René Higuita, avevano forti legami con Pablo Escobar, ucciso nel dicembre dell’anno precedente;). Che sia per una cosa o per l’altra, o per la terza, alla Colombia di oggi interessa poco; conta invece, per i ragazzi di José Pekerman, tornare a essere l’immagine positiva del Sudamerica, come doveva essere in quel 1994. Una nazionale che sa giocare a calcio, vince un Mondiale e riscatta l’immagine di un Paese troppo spesso vessato da crimini e violenza. Il Brasile ha altre idee: qui siamo a casa loro, e l’intenzione di perdere non ce l’hanno minimamente. Loro, in quel 1994, la Coppa del Mondo la vinsero; nel segno di Ayrton Senna, morto a Imola due mesi prima. Fu un anno triste: è passato un ventennio, e sembra ieri.
(Claudio Franceschini)