Ricerca Censis: rispetto al 2004 giù risparmi e potere d’acquisto. Occorre un taglio più deciso al cuneo fiscale, ne va della chiusura delle aziende
In vent’anni, dal 2004 in poi, la propensione al risparmio degli italiani è calata dal 14,6 al 9,3%. Mentre il potere d’acquisto complessivo (340 miliardi) è risalito rispetto al 2014 (326 miliardi), anche se rimane molto sotto i 357 miliardi di due decenni or sono. Numeri che ci parlano delle difficoltà delle famiglie, ma anche delle imprese, in particolare quelle piccole, che vedono un tasso di deterioramento del credito (la percentuale dei prestiti che non vanno a buon fine) triplo rispetto alle società più grandi. Per queste ultime è migliorato, passando dal 2% all’1%, mentre le microimprese rimangono lontane da questo dato, ferme al 3%, anche se contro il 3,7% di prima. I dati della ricerca Censis-Confcooperative, insomma, fanno suonare un campanello d’allarme. La strada per uscirne, spiega Augusto Patrignani, presidente di Confcommercio della provincia di Forlì-Cesena, è quella che in parte è già stata intrapresa dal governo: riduzione del cuneo fiscale e riforma del fisco e della tassazione. Ma c’è bisogno di andare più in profondità rispetto a quello che si è fatto finora. E anche le banche devono avere più coraggio per sostenere le imprese, molte delle quali, soprattutto nel commercio, sono destinate a chiudere.
Calo del risparmio, calo del potere d’acquisto, cosa ha significato per aziende e commercianti la riduzione delle risorse delle famiglie italiane?
In linea generale è chiaro che, con un carovita come quello di oggi, con l’incertezza stagnante che caratterizza questo momento, le guerre, le bollette che aumentano, si constata una mancanza di fiducia da parte delle famiglie, che tendono ad avere meno entrate e quindi risparmiano di meno. È altrettanto chiaro che tutto questo ha delle ripercussioni sugli acquisti. Il commercio ne soffre, ma quando ci si trova in situazioni come queste non ci può essere nessun settore che non va in sofferenza. Quando i redditi sono stagnanti e la precarietà lavorativa è diffusa, diventa difficile pianificare e risparmiare è quasi un lusso.
La ricerca parla di un potere d’acquisto diminuito di 17 miliardi rispetto a 20 anni: se si fa la somma del calo in questo periodo di tempo si ottiene una cifra molto consistente. Si sente tutta nell’economia reale?
Sono dati reali e condivisibili, però veniamo da due decenni di politiche che non hanno aiutato a far crescere il Paese e questi sono gli effetti che ci troviamo davanti. Quando non si investe sui giovani e non si sostengono le imprese per farle crescere, questi sono i risultati. Negli ultimi due o tre anni mi sembra che, per fortuna, ci sia stato un cambio di rotta: non voglio fare un plauso a questo governo, però vedo se non altro più attenzione alle imprese, si sta procedendo sulla strada delle riforme: la barra, insomma, è orientata verso la direzione giusta, nel tentativo di aiutare le imprese a consolidarsi sul mercato.
Quali sono le riforme che vanno in questa direzione?
La riduzione del cuneo fiscale ha messo più soldi in tasca agli italiani, e poi c’è la riforma fiscale, che vuole portare da quattro a tre le aliquote.
Non è ancora sufficiente, però?
Assolutamente no, bisogna sicuramente fare molto di più. La bacchetta magica non ce l’ha nessuno, solo con il tempo si potranno vedere gli effetti di queste politiche. Abbiamo bisogno almeno di cinque anni: ci vuole tempo, anche se oggi il mondo va talmente veloce che, se le cose funzionano, lo si vede anche abbastanza presto; se certi provvedimenti non cominciano ad avere effetti positivi in breve tempo, finisce che non funzionano neanche alla distanza. La strada maestra è questa, ma le riforme devono essere più incisive.
Le aziende come hanno reagito alla mancanza di potere d’acquisto, come hanno cercato di venire incontro ai clienti?
Naturalmente fanno di tutto per tentare di rimanere sul mercato, anche se fanno molta fatica. Ci si barcamena, ma alla fine molte aziende sono costrette a chiudere. Spesso si cerca di fare economia tagliando i costi, è l’unica strada, anche se poi molti costi in realtà non sono riducibili. Allora si va verso la chiusura delle attività. Un pericolo che corre tutto il mondo del commercio, che ha di fronte dei competitor fortissimi: l’online, per esempio, non voglio dire che sia imbattibile, ma di certo è difficile da contrastare. La grande distribuzione fa la sua parte, con la conseguenza che i negozi del commercio di vicinato, per resistere, devono innovare. Uno sforzo che comporta costi da sostenere e non garantisce di trovare una via d’uscita alla crisi.
La ricerca parla di deterioramento del credito ancora consistente, soprattutto per le microimprese. C’è effettivamente una diminuzione anche nella concessione del credito?
Anche questo è un aspetto da non sottovalutare. D’altronde, le banche cercano di fare il proprio mestiere: anche per loro si tratta di un momento molto complicato.
Gli istituti di credito tendono a non prendersi rischi e a scaricarli sulle imprese?
Non è che non prendano rischi, è che oggi le banche, dopo le burrasche degli anni scorsi, in cui hanno dovuto mettere in perdita un mare di crediti, hanno dovuto muoversi in maniera più oculata. Le imprese devono offrire alle banche dei programmi molto concreti: se non si creano queste condizioni, gli istituti di credito tendono a non erogare niente.
Questo succede per mancanza di risorse economiche o patrimoniali da parte delle imprese o per mancanza di progettualità, di persone capaci di immaginare un futuro?
È un discorso sia di risorse economiche che di competenze interne alle aziende. Noi, come associazione, cerchiamo di fare di tutto per aiutare i nostri associati in termini progettuali, ma poi, se mancano le risorse economiche, non si va da nessuna parte.
Il settore bancario, però, fa profitti: ci vorrebbe più coraggio da parte degli istituti di credito?
Ci vorrebbe più coraggio da parte delle banche, hanno fatto sicuramente utili molto importanti, dovrebbero metterci un po’ più di cuore per far sì che le imprese possano resistere sul mercato. D’altra parte, se vengono a mancare le aziende, smettono di lavorare anche le banche.
La priorità, comunque, rimane quella di ridurre il cuneo fiscale per aumentare il potere d’acquisto dei salari?
Bisogna proseguire sulla strada, abbassare le tasse delle imprese, tagliare i costi da parte dello Stato. Ce ne sono diversi che non sono necessari. E poi bisogna mettere mano alla tassazione. Lo Stato deve fare una spending review seria. Non basta parlarne. Solo in questa direzione si può rimettere in moto un Paese che ora è in condizioni difficili.
(Paolo Rossetti)
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