I quattro giorni di fuoco intercorsi fra la designazione di Raffaele Cantone a procuratore capo di Perugia e l’espulsione di Luca Palamara dall’Associazione nazionale magistrati – inframmezzati da una sorta di ultimatum da parte del Presidente della Repubblica (e del Csm) Sergio Mattarella – hanno segnato una svolta indubbia e brusca nella storia dell’ordine giudiziario nazionale in epoca di democrazia repubblicana. Gli sviluppi visibili nell’immediato, tuttavia, non sono di facile lettura, così come poco pronosticabili appaiono quelli a medio termine.
La nomina di Cantone è stata un passaggio molto complesso, i cui esiti sono sembrati rompere molte delle “narrazioni” correnti sulla magistratura: anche quelle sorte nell’ultimo anno attorno al “caso Palamara”, cioè all’emergere dei condizionamenti interni (“correntizi”) ed esterni (collusioni opache con la politica) sull’assegnazione degli incarichi direttivi da parte del Csm, formalmente indipendente nell’auto-governare la magistratura.
L’ex capo dell’Anac (un’authority indipendente i cui vertici sono designati dal Governo) era fino a mercoledì un magistrato “di ritorno”, in parcheggio presso il massimario in Cassazione. I suoi impegni “extragiudiziari” datano da prima dei cinque anni trascorsi all’Anticorruzione (su indicazione del Governo Renzi): nella commissione istituita dal Governo Monti che ha studiato la successiva legge Severino e poi nella task force per la lotta alla criminalità organizzata creata dal Governo Letta.
Cantone – sostituto procuratore a Santa Maria Capua Vetere e quindi presso la Direzione distrettuale antimafia di Napoli – non aveva mai ricoperto finora incarichi direttivi diretti in uffici giudiziari. È stato questo, in Csm, l’argomento principale sollevato contro la sua candidatura dai sostenitori del suo concorrente: Luca Masini, procuratore aggiunto (e per un periodo capo “facente funzioni”) a Salerno, con 27 anni filati di carriera anche sul duro fronte siciliano.
Non è noto se – dopo l’acceso confronto sulla questione nel “plenum” – Masini impugnerà ora la decisione, come non è stato del resto infrequente nella routine recente delle nomine giudiziarie. Resta il fatto – il primo meritevole di segnalazione – che il Csm si è spaccato sulla questione profonda e centrale del “merito”, laddove l’esito della selezione per il nuovo procuratore di Perugia ha premiato un candidato di cui è stata messa in discussione aperta l’effettiva prevalenza del curriculum professionale in magistratura
Cantone, non a caso, si è affermato grazie a un evento senza precedenti: la convergenza compatta degli otto membri “laici” del Csm, cioè i “non magistrati” indicati dal Parlamento a fianco dei 16 .”togati” eletti dai magistrati. È stata questa una seconda annotazione forte emersa dalla cronaca. L’intera “politica” rappresentata nel Parlamento nazionale – spaccata come non mai fra maggioranza di Governo e opposizione – si è ritrovata invece d’accordo, in modo decisivo, nel promuovere un magistrato con una lunga esperienza “extragiudiziale” a un incarico giudiziario delicatissimo per l’interfaccia bollente fra potere giudiziario e poteri legislativo ed esecutivo. La Procura di Perugia – istituzionalmente delegata a indagare sul palazzo di Giustizia di Roma – è infatti titolare dell’inchiesta sul “caso Palamara”: cioè proprio sul presunto “traffico di influenze” sul crinale politici-magistrati per le nomine in Csm.
La candidatura Cantone – non diversamente da quella di Masini – è nata da quel “sistema correntizio” in Csm, in questo momento nel mirino (anche del Quirinale, garante costituzionale ultimo dell’ordine giudiziario). L’ex presidente dell’Anac è stato sostenuto da Area: forse la più storica delle correnti giudiziarie, nata come Magistratura Democratica e a lungo egemone fra i magistrati italiani. Appare questo un terzo profilo sensibile del “caso Cantone”: un passaggio in parte “narrato” come prosecuzione di un impegno civile di lungo periodo di MD nella progressiva “democratizzazione reale” della Repubblica attraverso l’azione giudiziaria. Nel giugno 2020, in concreto, Area si è ritrovata a muoversi come corrente giudiziaria “normalizzata”, alleandosi con un’altra corrente (di per sé singolare: la temporanea “unità nazionale” della politica in Csm) per sostenere contro le altre correnti un magistrato particolarmente esposto sul versante politico.
L’esito numerico a favore di Cantone (12 voti fra togati di Area e laici contro 8 togati pro-Masini) non può non includere anche tre astensioni: quelle dei consiglieri togati della corrente UniCost, quella che ha sempre avuto un riferimento forte nello stesso Luca Palamara. Tre giorni dopo, il magistrato calabrese – ex membro del Csm – è stato espulso dall’Anm – di cui era stato Presidente – dopo l’ennesimo intervento energico di Mattarella per una svolta nella magistratura. Resta quindi agli atti – quarto spunto di riflessione – che il magistrato chiamato ora a completare “l’inchiesta Palamara” è stato indicato anche grazie alla “non opposizione” della “corrente Palamara”.
Fra otto membri (tutti togati) del Csm a favore di Masini – e quindi contro Cantone – si è contato Nino Di Matteo: il magistrato palermitano al centro della lunga e controversa inchiesta sulla cosiddetta “Trattativa” fra Stato e mafia nei primi anni ’90, a valle immediata degli assassinii di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Di Matteo è attualmente sotto i riflettori delle cronache per lo scontro aperto con il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede (M5S) riguardo la nomina del capo del Dap: quando ancora infuriano le polemiche sui controversi provvedimenti di scarcerazione a beneficio di capi mafiosi con il pretesto del rischio-Covid. Il vero supporter di Masini in Csm è stato in ogni caso Piercamillo Davigo, ex presidente dell’Anm, veterano di Mani Pulite a Milano e profeta di un ruolo “ipergiustizialista” della magistratura nella democrazia italiana.
Al di là delle considerazioni da addetti ai lavori, questa angolazione sembra mettere in discussione definitiva una delle “narrazioni”più basiche dell’ultimo trentennio: quella che – principalmente sul fronte mediatico – ha contrapposto in termini elementari una magistratura compatta (supposta “buona”) contro una politica “cattiva” in via pregiudiziale e senza eccezioni. È in questa visuale che Cantone – magistrato impegnato nei luoghi in cui Roberto Saviano ha ambientato “Gomorra”, ma anche garante dell’Expo di Beppe Sala a Milano sotto il Governo Renzi – è stato “narrativamente” affiancato di Di Matteo, che invece ha indagato a lungo su quanto si è presunto possa essere avvenuto fra le istituzioni di Roma e i vertici della criminalità organizzata al Sud nei mesi più con concitati di Tangentopoli a Milano.
È stato così, del resto, che le vesti di “campione giudiziario” sono passate senza apparenti soluzioni di continuità dal pm milanese Antonio Di Pietro (poi leader politico riuscito e ministro del governo Prodi) al pm siciliano Antonino Ingroia, poi politico mancato con Rivoluzione Civile, inizialmente sostenuta anche dal pm Luigi De Magistris (poi politico riuscito come sindaco “arancione” di Napoli). È così che, almeno inizialmente, Davigo è parso incarnare la continuità del “vangelo antipolitico” di Mani Pulite, la cui ortodossia è peraltro rivendicata da ex magistrati come Gherardo Colombo.
Il “caso Cantone-Palamara” (è questa la nota a margine conclusiva di questa riflessione) sembra aver dunque dato un colpo di piccone decisivo al mito mediatico di una magistratura “democratica” istituzionalmente unita e concorde attorno all’esigenza condivisa e necessaria di “correggere gli errori della democrazia politica”. La magistratura appare invece una corporazione divisa, autorizzando a credere che lo sia sempre stata. I suoi “cavalieri” lottano l’uno contro l’altro assai prima di ingaggiare (mai davvero assieme) la battaglia contro il Male della politica. Non hanno anzi timore di scendere a patti con la politica: soprattutto con quella mediaticamente “corretta”, contigua a ciò che nel ventesimo secolo si classificava come “sinistra” (nel ventunesimo è assai più arduo costruire schemi).
È comunque sotto gli occhi di tutti che l”idea di giustizia di Cantone non è quella di Davigo: e questo emerge proprio davanti al caso Palamara. È forse l’unica risposta di fatto che filtra dai “quattro giorni di fuoco”: che per il resto pongono solo domande. Però – questa volta – difficilmente eludibili: come ha detto Mattarella, senza possibilità di equivoco.