A sorpresa tornano a farsi vivi nel teatro libico gli Stati Uniti. Washington annuncia un piano per demilitarizzare una fascia di territorio a sud dell’area costiera tra Sirte e Bengasi, una zona franca per riportare alla normalità la produzione delle grandi risorse petrolifere libiche che al momento, vista la divisione del paese e la guerra in atto, diminuiscono sempre di più. In realtà, ci dice in questa intervista Michela Mercuri, esperta di Libia e docente di Storia contemporanea dei Paesi mediterranei all’Università di Macerata, “l’intervento a gamba tesa degli Stati Uniti, più che agli interessi energetici, è dovuto alla presenza russa che sta piantando sempre di più le radici. Per gli americani è inconcepibile che la partita libica sia in mano a Putin. Questo metterebbe in discussione non solo il ruolo degli Usa nel quadrante libico ma anche quello della Nato”.
Si parla di “guerra congelata” in Libia, dove nessuno riesce ad avere la meglio. Davanti a questo stallo si apre la partita della spartizione del petrolio e dell’energia libica in cui si rifanno vedere gli Stati Uniti. Trump aveva aspettato questo momento per rifarsi vivo in Libia?
Più che per l’aspetto energetico credo che il rinnovato attivismo di Washington in Libia sia da addebitarsi alla Russia. Questo perché per gli americani è inconcepibile che la partita libica sia in mano a Putin, il quale ha schierato 14 caccia e mira ad avere almeno due sbocchi sul mare. Significa mettere in discussione non solo il ruolo degli Usa nel quadrante mediterraneo ma mettere in discussione anche il ruolo della Nato. Ecco perché un intervento così a gamba tesa degli americani in Libia negli ultimi giorni.
L’idea americana è quella di una zona demilitarizzata nella fascia di territorio a sud dell’area costiera tra Sirte e Bengasi anche per tenere a freno ai russi. Che possibilità c’è che funzioni?
Dipende da due fattori. Il primo riguarda fin dove gli Usa vorranno spingersi per far rispettare questa zona, ad esempio davanti a una avanzata egiziana o russa. In secondo luogo dobbiamo guardare agli attori regionali che stanno combattendo con Serraj. Nel momento in cui ci dovesse essere una azione turca finalizzata alla conquista di Sirte o verso la zona di Sirte, la guerra diventerebbe una guerra in atto, non più congelata. La risposta degli Usa in questo caso sarà fondamentale.
Gli altri paesi in ballo in Libia (Turchia, Egitto, Emirati Arabi, Francia) come reagiranno?
Si tratta di attori diversi con interessi diversi. Soprattutto l’Egitto ha minacciato l’intervento contro la Turchia in caso di avanzata verso Sirte, d’altra parte anche gli Emirati continuano a rifornire Haftar di armi. La Francia ha altrettanti interessi diversi, vuole le risorse energetiche di Sirte, è entrata nel conflitto per le risorse di quest’area. Sono tutti attori dai cui movimenti dipenderà il futuro del paese. Soprattutto se l’Egitto e gli Emirati decideranno di continuare l’offensiva, la situazione potrebbe degenerare. Se invece si troverà il modo di dialogare allora si potrà trovare una via di uscita.
E l’Italia?
L’Italia, nonostante gli interessi dell’Eni, ribaditi nell’incontro di Descalzi con Serraj il 20 giugno scorso, risulta ancora indecisa. Per questo motivo è fuori dalla partita libica.
Il presidente della Camera dei rappresentanti di Tobruk, Aguila Saleh, ieri era a Roma dove ha chiesto che l’Italia sostenga il cessate il fuoco in Libia, per evitare “una guerra violenta che è un male per tutti”. Che tipo di richiesta è? Cosa implica?
Saleh sembra assurgere al ruolo di poliziotto buono dell’est libico contro il generale cattivo Haftar. Ha incontrato molti esponenti politici per proporre una road map con l’elezione di un presidente e tre vice presidenti che porterebbero poi all’elezione di un premier. Un piano respinto dal governo di Serraj, ma sicuramente questa attività diplomatica dovrebbe essere presa in considerazione per trovare un dialogo tra est e ovest.
Intanto la Camera dei rappresentanti libica, il parlamento nella parte orientale del paese, ha dato il permesso alle forze armate egiziane di intervenire nel conflitto libico: è una minaccia o qualcosa di concreto?
Difficile dirlo, ci sono tutti gli elementi per una possibile escalation. Tuttavia l’Egitto sembra mostrare i muscoli per cercare di aumentare il potere contrattuale con la Turchia che al momento sembra essere l’attore vincente. C’è anche una diplomazia che si sta muovendo, ci sono due piani paralleli. Difficile dire quale potrà vincere.
Il quadro che si profila qual è: un Mediterraneo sempre meno sicuro?
Mai come oggi la sicurezza dipende dalla stabilizzazione della Libia, dalla quale partono tutte le spinte di destabilizzazione per i paesi vicini. Dal confine tunisino al confine algerino partono tutti gli jihadisti che attraversano le linee, ci sono attori internazionali che possono con una guerra mettere in crisi il quadrante mediterraneo. Le sorti dipendono largamente da ciò che succederà in Libia.
(Paolo Vites)