Gli arrivi non si fermano. Ieri in una telefonata tra il ministro degli Esteri Tajani e il sottosegretario di Stato americano Anthony Blinken si è convenuto sull’importanza di un Mediterraneo “stabile”. Ma è difficile scorgere progressi, perché Blinken ha detto che c’è massima apertura nel “sostenere le aspirazioni del popolo tunisino per un governo democratico e responsabile”. Non sfuggano le parole “democratico e responsabile”. Significano riforme. Possibilmente a garanzia dei diritti più attenzionati dagli Stati Uniti. E l’assistenza macrofinanziaria che si invoca per la Tunisia non arriverà senza quelle riforme.
Un’impasse di cui si è avuta conferma due giorni fa. “Siamo pronti al sostegno economico” ha detto il commissario Ue Gentiloni a Tunisi “ma la prima condizione è l’adozione da parte del Fondo monetario internazionale di un nuovo programma di erogazione”.
Dunque, apparentemente, sembra che tocchi al Fmi fare la prima mossa, ma non è così. Essa spetta a Tunisi, che deve decidere se attuare le riforme chieste dal Fondo monetario. Ce lo conferma Mauro Indelicato, giornalista de Il Giornale e InsideOver, esperto di geopolitica. In questa fase, è la sua analisi, la cosa da fare subito è costringere la Tunisia alle sue responsabilità nel controllo del proprio territorio.
Il pallino è nelle mani di Saied o del Fmi?
È l’Fmi che deve sganciare i soldi ed è quindi l’istituto a detenere il coltello dalla parte del manico. Saied tuttavia si sta giocando la carta relativa ai migranti: il presidente tunisino è ben consapevole della pressione politica esercitata dai continui sbarchi ed è quindi a lui chiaro che l’Italia lo sosterrà. Tuttavia, né Roma e né Bruxelles sembrano in grado di sbloccare la situazione. Il punto nevralgico riguarda proprio le riforme.
Quali riforme?
È questo il punto. L’Fmi vuole maggiori privatizzazioni, Saied non è disposto a concederle. Ricordiamoci che la Tunisia indipendente nasce con il panarabismo socialista di Bourghiba, difficile concepire quindi privatizzazioni e liberalizzazioni. E credo che peraltro, nelle condizioni in cui versa la Tunisia oggi, privatizzare risolverebbe ben poco, anzi.
Chi avrà la meglio secondo te?
Difficile a dirsi. Roma preme affinché vengano sbloccate almeno le prime tranche di aiuti, ma l’Fmi sembra irremovibile. Non è la prima volta. Già in altre occasioni l’ente ha sottoposto l’erogazione di finanziamenti all’approvazione di rigide riforme.
Cosa si rischia?
Uno stallo politico in cui gli appelli dell’Italia, ben consapevole del costo politico di lasciar fallire la Tunisia, vengano recepiti con colpevole ritardo.
Si può fare una previsione di come sarà l’estate nel Canale di Sicilia, prendendo in considerazione il periodo attuale e quello che precede questa crisi tunisina?
Occorre prima stabilire cosa si intende per crisi tunisina. Nel Paese la crisi è endemica, ha favorito l’esplosione della primavera araba nel 2011 e non è mai stata risolta. Difficile purtroppo trovare un momento della storia recente della Tunisia senza rintracciare momenti di crisi. E infatti, dalle coste tunisine si è sempre partiti anche negli anni in cui il numero degli sbarchi si era attenuato.
E poi?
Negli ultimi tre mesi si è assistito a un ulteriore incremento. Si parla di un aumento di quasi l’800% delle partenze. È facile capire che in vista dell’estate la situazione potrebbe farsi molto, molto critica.
Di chi è la responsabilità dell’incremento delle partenze?
Sotto il profilo pratico, dei trafficanti. Sono questi ultimi ad aver fiutato l’aria e ad aver impresso una forte accelerazione. Hanno sfruttato gli spettri legati al possibile mancato finanziamento dell’Fmi e di un collasso generale dell’economia, attraendo sempre più migranti sia tra i concittadini che tra le persone subsahariane. C’è però anche una responsabilità politica e questa rimane comunque in capo a Tunisi.
Per quale ragione?
Perché è incapace di controllare il proprio territorio. Non solo, ma quando Saied nei giorni scorsi ha fatto proclami contro la presenza di subsahariani nel proprio territorio, è chiaro che ha fornito un assist all’incremento di partenze verso l’Italia.
Nonostante tutto, ha detto Piantedosi, la Tunisia ci sta aiutando. A tuo avviso che cosa serve nel brevissimo termine? Un sistema di rimpatri realmente funzionante? Oppure una soluzione Germania-Turchia?
La soluzione alla turca personalmente la scarterei sempre. Perché se paghi un Paese per trattenere i migranti, ti poni in una drammatica situazione ricattatoria. E inoltre non risolvi il problema: l’Ue dà ad Ankara tre miliardi di euro, ma l’anno scorso la rotta balcanica è stata la più attraversata d’Europa. Nel caso specifico, la Tunisia va sì aiutata, ma ad avere i soldi dell’Fmi o ad avere altre forme di sostentamento per la sua economia.
E sui rimpatri?
Molti Paesi invocano maggiori rimpatri, con l’intento di scoraggiare nuove partenze. Sono però intenzioni che si scontrano con i tempi decisionali molto lunghi dell’Ue.
Nell’immediato cosa dovremmo fare?
Serve costringere la Tunisia a fare il proprio in modo più chiaro: Tunisi ha gli oramai noti problemi economici, come detto prima è giusto sostenere la sua causa, ma deve anche essere messa davanti alle proprie responsabilità politiche. Saied è comunque a capo di un governo con le sue istituzioni pienamente funzionanti, la Guardia costiera può agire per pattugliare e per lottare contro i trafficanti.
Cosa avverrebbe dando via libera alle Ong?
Secondo Frontex la presenza delle Ong funge da stimolo, da pull factor, per i trafficanti. Ma il riferimento è alla rotta libica. Per quanto riguarda la Tunisia, cambierebbe poco, perché gran parte dei barconi che partono dalle coste tunisine sbarcano autonomamente a Lampedusa e in Sicilia.
Qualcuno vorrebbe ripristinare la missione europea Sophia. Sarebbe la strada giusta? O servirebbe piuttosto una estensione del mandato di Irini?
Si parla di queste missioni perché ritenute idonee a ridare all’Ue un ruolo centrale nei soccorsi. L’idea di fondo non è da scartare, ma c’è un problema non indifferente per l’Italia. Le navi militari sbarcherebbero in gran parte nei nostri porti, aumentando la pressione sul nostro sistema di accoglienza. Esattamente come avvenuto nelle precedenti missioni.
(Federico Ferraù)
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