A poche ore dalla prossima riunione del consiglio nazionale del Pd che deve dipanare la matassa generata dalle improvvise dimissioni di Zingaretti, prende quota la soluzione Letta.
Con un accorato tweet l’ex presidente del Consiglio ha chiesto ancora 48 ore di riflessione (e di contatti), ma la riserva avanzata qualche giorno fa sembra definitivamente accantonata.
Vuoi per l’amore verso un partito che si è contribuito a fondare, vuoi il momento particolarmente delicato del Paese, vuoi l’umano desiderio di rivincita, per Enrico Letta si prospetta dunque un glorioso ritorno in politica.
Dopo il passaggio di consegna della famosa campanella nelle mani di Renzi – eravamo nel 2014 – Letta non solo si dimise da parlamentare ma avviò un’onorevole carriera di docente universitario presso il prestigioso istituto di studi internazionali Science Po a Parigi. Poi ha dato nuovo impulso ad Arel, la fondazione creata da Nino Andreatta di cui è presidente e promosso almeno una decina di altre importanti iniziative in giro per il mondo. Frapponendo così la giusta distanza tra la sua vita professionale e il Pd e la politica italiana. Ha centellinato in questi anni gli interventi pubblici, avendo cura di non alimentare divisioni o vecchi rancori.
Questo ovviamente non gli ha impedito di coltivare il suo profilo di uomo di cultura e di attento osservatore della realtà, soprattutto del mondo giovanile con cui è stato a stretto contatto. Così come ha conservato un’ampia rete di relazioni e un posto di primo piano nella nomenclatura che conta in Europa.
Tutto questo giro di parole per giungere al punto: Letta sta al Pd come Draghi al governo del Paese. Possiamo cercare mille spiegazioni e addentrarci in ipotesi fantasiose, ma non possiamo non vedere come – giunti ad un certo punto della drammatica crisi prodotta dalla pandemia – la regia delle operazioni in Italia è passata, diciamo così, in mani sicure e con le idee chiare. Non so bene di chi siano queste mani, ma si capisce che hanno molta dimestichezza con il potere.
Banalmente potremmo parafrasare il famoso detto “quando il gioco si fa duro, i duri giocano”. Ed ecco che nel giro di poche settimane abbiamo assistito, senza colpo ferire, al cambiamento nel nostro paese di tutta la linea di comando – dal presidente del Consiglio al segretario del Pd – con l’inserimento nei punti chiave di governo di persone dal curriculum ineccepibile e di comprovata capacità.
Poteva fare eccezione il Pd? Era questo il messaggio subliminale che ci ha voluto lasciare Zingaretti con il suo gesto? Quello che è certo è che senza un Pd forte e stabile stava rischiando anche il governo Draghi. Ecco perché – seguendo lo stesso metodo adottato da Mattarella – ai dirigenti del Pd è apparsa in poche ore possibile una soluzione a cui nessuno aveva dato molto credito fino a qualche giorno prima.
Letta non ha alcuna intenzione di cambiare la linea del Pd. Non ci saranno scossoni né repentine giravolte. Non si abbandonerà l’alleanza con i 5 Stelle. Di sicuro ci sarà una gestione diversa della linea, maggiore autorevolezza sui contenuti e maggiore impegno verso il governo.
Quello che cambia radicalmente è invece la prospettiva. Intanto il Pd oggi dispone di una candidatura molto forte per il dopo Draghi, e questo – al di là della discussione sul partito maggioritario – pone il Pd in una posizione diversa rispetto al recente passato, in cui esisteva solo la figura di Conte. Letta ha inoltre la possibilità di invertire la rotta delle continue scissioni. È abbastanza evidente che cercherà di riportare nel Pd gli amici confluiti in Leu per colpa di Renzi, ma si spenderà anche per convincere il gruppo di Calenda e della Bonino a riprendere un percorso unitario. E chissà, forse un giorno non lontanissimo, sarà pronto a raccogliere anche qualche profugo di Italia Viva.
Insomma, si ha netta l’impressione che Letta abbia idee molto chiare su cosa fare e che le 48 ore di cui si parlava prima servano di più ai capi-corrente a cui è stato intimato di deporre le armi per convincere della bontà della soluzione le milizie già pronte allo scontro.
Letta guarda lontano, ben oltre la fine della pandemia. Avrà da gestire la partita delle elezioni amministrative del 3 ottobre, poi l’elezione del nuovo presidente della Repubblica nel febbraio del 2022, infine le liste per le elezioni politiche del 2023. E solo dopo si tornerà a fare un congresso.
Ma anche un’altra cosa è certa: ognuna di queste decisioni non sarà presa con la faticosa mediazione e con l’inesauribile pazienza di Zingaretti, che ascoltava tutti e si comportava come un primus inter pares, ma con la forza di un leader, a cui il Pd legherà totalmente il suo destino, l’unico “predestinato” al dopo-Draghi.
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