La Serbia presenta un quadro difficile da decifrare. Le proteste di piazza contro Vucic possono destabilizzare il governo? Ci sono ingerenze esterne?

Le proteste antigovernative in Serbia durano dal novembre del 2024. La miccia fu il crollo di una tettoia della stazione ferroviaria da poco costruita a Novi Sad, provocando 14 vittime. Le proteste nascondono una profonda frustrazione (e rabbia) nella popolazione, soprattutto giovanile.

L’accusa al governo è di poca trasparenza (i contratti pubblici non sono pubblicati), di collusione con il crimine organizzato trans-balcanico e transnazionale (gli analisti parlano di un’integrazione della criminalità locale con quella italiana, russa, cinese, e con i cartelli; situazione aggravatasi dall’inizio della guerra in Ucraina, sia con il traffico di armi che di esseri umani), di repressione dei media e della libertà di stampa (arresti di giornalisti, intimidazioni, chiusura di mezzi di informazione, eccetera, sono frequenti nella cronaca del Paese, e furono iniziati da Vučić nel 2000), e di manipolazione delle strutture dello Stato (particolarmente della giustizia e della polizia), impedendo lo sviluppo della democrazia anche con palesi interferenze nel processo elettorale.



Da dodici anni Aleksandar Vučić è presidente della Serbia. Non va dimenticato, tuttavia, che la parabola politica di Vučić (nato nel 1970) iniziò prestissimo, nel 1993, come portavoce di Slobodan Milosevic all’apice delle guerre iugoslave e come militante del nazionalismo serbo di estrema destra.

Il bombardamento della NATO (1999) in Serbia contribuì da un lato alla caduta di Milosevic (2000) e dall’altro all’ascesa del suo delfino, Aleksandar Vučić, che ha dimostrato di essere un ben più abile populista rispetto al maestro.



Sono passati 25 anni da allora, un quarto di secolo che cadrà il prossimo 5 ottobre. Da allora, la Serbia ha consolidato un “nuovo” regime al potere, senza risolvere nessuno dei problemi che portarono alle guerre degli anni Novanta (Kosovo, Bosnia) e senza dare prospettive concrete alle nuove generazioni.

Come sottolinea il centro studi Bruegel di Bruxelles, i giovani serbi si sono rassegnati all’emigrazione. I dati indicano che nel 2025 il 41% dei serbi desidera emigrare, vivere e lavorare all’estero, particolarmente in Austria e Germania. La disoccupazione giovanile in Serbia è doppia rispetto ai vicini, Bulgaria, Romania e Croazia. Tutti indicatori che in Serbia c’è un concreto problema.



Analizzando il problema della Serbia in modo indipendente è facile individuare i maggiori fattori di rischio sistemico del Paese. La qualità delle attività di governo è minacciata dalla “cattura” del sistema politico, dalla corruzione e dalla mancanza di dibattito pubblico, soprattutto nei media.

Ciò provoca la paralisi delle riforme e il rattrappimento degli spazi civici di espressione e partecipazione. Il processo di adesione all’UE è appeso alla soluzione della “questione” Kosovo. Ciò comporta una riduzione dei fondi europei.

Sul piano geopolitico, la Serbia mantiene una discreta ambiguità, giustificata dal suo tradizionale non allineamento, dialogando con la NATO ma accettando la “leva” della Russia e la dipendenza dalla Cina.

A questo si aggiunge il declino demografico, soprattutto con lo spopolamento delle campagne, e la crisi ambientale e della salute provocata dall’uso massiccio di energia fossile.

Al netto delle teorie cospirative che circolano in Serbia (sono tante e quasi tutte promosse da esponenti di estrema destra, che non dispiacciono al regime), la domanda da porsi è se le proteste in corso possano provocare un cambio di regime, qualcosa di simile a quanto avvenne nel 2000.

Onestamente, direi che è poco probabile. Il principale motivo è che la leadership è “diffusa”, cioè, decentralizzata in più fazioni con diversità tattiche e di richieste. È molto difficile che un tale movimento possa tradurre il legittimo malcontento in risultati elettorali.

A questo si aggiunge che il regime è saldamente in controllo della repressione, dei media, e delle istituzioni. Il movimento manca di una ideologia unificata, oscillando dall’etnonazionalismo alla liberal-tecnocrazia. Se non ci saranno defezioni importanti dal regime, lo scenario più probabile è che Aleksandar Vučić, agendo sempre per il bene della gloriosa nazione serba, offra qualche parziale concessione (liberazione di prigionieri politici, un po’ di trasparenza dei contratti pubblici).

Nella peggiore delle ipotesi, Vučić sarebbe costretto a chiamare elezioni anticipate. Tuttavia, con il vantaggio strutturale di cui lui e il suo regime godono, è difficile immaginare un cambiamento.

Concludendo, la Serbia è impantanata in una transizione che non è mai veramente iniziata dopo il 2000. Ma questo triste fallimento non può non essere collocato nel fallimento più grande delle politiche balcaniche dell’Unione Europea, il cui emblema è il costosissimo protettorato (non dichiarato) in Bosnia e parzialmente in Kosovo. Fortunatamente per Vučić c’è la NATO, che con la KFOR riesce, a costi sensibilmente esigui rispetto allo sperpero dell’UE, a garantire un quadro accettabile di sicurezza nella regione.

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