In Siria si rischia la frantumazione del Paese per aree di influenza. E Israele, per tutelare la propria “sicurezza”, sta attuando un piano preciso

Li chiamano lealisti. In realtà sono soldati dell’esercito sconfitto, per la maggior parte della minoranza alawita (una setta distaccatasi dallo sciismo), la stessa del deposto presidente Bashar al Assad. Oggi in Siria l’ex esercito regolare è diventato resistenza, e al contrario gli ex insorti sono diventati governo, quel governo del nuovo leader Ahmad Sharaa “al Jawlani” che aveva promesso dal primo di marzo una nuova nomenclatura inclusiva, rappresentante di tutti i siriani.



Siamo ormai quasi a metà marzo, ma di inclusione non c’è ombra, e la Siria è diventata invece teatro di purghe etnico-religiose, terribile preludio di una nuova guerra civile. Gli alawiti, allontanati dal potere e da ogni forma di assistenza sociale, si sono allineati con una “resistenza armata” guidata da un ex generale filoiraniano, Suheil al Hassan, che durante il regime di Assad era a capo delle Forze speciali.



Nel territorio di Latakia (l’antica Laodicea, il più grande porto siriano) si contano già circa 800 morti tra quei lealisti ribelli, uccisioni spesso barbare e plateali, pericolosamente simili ad un pulizia etnica, un massacro assurdo, un monito deterrente per possibili nuove rivolte, adottato dalle forze di sicurezza del HTS, il gruppo jihadista Hayat Tahrir al Sham al potere, appoggiate da milizie non meglio identificate contro la minoranza alawita.

AdnKronos riporta che il Partito socialista progressista libanese (PSP) ha denunciato “tentativi stranieri di destabilizzare la Siria, avvertendo che le violenze nella regione costiera rappresentano una minaccia per l’intera regione: quello che sta accadendo sulla costa siriana fa parte di un tentativo esterno di destabilizzare il Paese”.



Di ingerenze straniere in Siria effettivamente ce ne sono fin troppe, tanto da poter ipotizzare per il futuro un Paese puzzle, uno spezzatino di influenze più o meno palesi, ingarbugliate da interessi, religioni, etnie. È noto, ad esempio, che Israele voglia riportare in auge la sua “politica periferica”, in modo particolare nei rapporti con due gruppi etnici siriani: i drusi (che sono arabi, anche se con identità definita) e i curdi (che arabi non sono).

Israele, che già controlla una consistente porzione del suolo siriano, prossimo al suo confine, pur non sostenendo apertamente gli ex del regime, non risparmia attacchi ai nuovi governanti. “La repressione contro gli alawiti – ha detto il ministro degli Esteri Katz – dimostra che il nuovo presidente è un terrorista della scuola di Al-Qaeda”.

D’altra parte, i nuovi leader siriani dell’HTS hanno bloccato il confine tra Siria e Libano per scongiurare intromissioni dei miliziani Hezbollah, filoiraniani e quindi vicini agli alawiti.

Ma le ingerenze straniere vedono anche schierati Qatar e Arabia, Paesi in appoggio di al Jawlani, mentre l’Iran sostiene (con notevoli difficoltà) la resistenza lealista. C’è poi la Turchia, che non ha mai nascosto il suo obiettivo: creare un’area cuscinetto nella Siria nordorientale, quella che sta sfuggendo al controllo dei nuovi padroni del Paese, controllata dai curdi delle Forze democratiche siriane (SDF). Curdi che ancora oggi sono spaccati tra Enks e Pyd (Encûmena Niştimanî ya Kurdî li Sûriyê, cioè il Consiglio nazionale curdo in Siria, e il Partito dell’Unione Democratica), ma “coperti” da un ombrello statunitense (che potrebbe però terminare da un momento all’altro), garantito da circa 1.500 soldati in loco.

Mentre la Russia finora è rimasta a guardare, continuando sì a garantire sostegno all’alleato Iran, ma non intromettendosi direttamente nel calderone siriano, cercando piuttosto di mantenere in essere le sue basi, Tartus e Khmeimim, giusto vicine a Latakia.

In questi giorni di sangue, la Siria sembra soggetta ad una sorta di mitridatizzazione, un’immunità acquisita alla pace, frutto di decenni di veleni, scontri, violenze, guerriglie, che la condannano ad un perenne caos dove tutti si sentono in diritto di ammazzare tutti.

(1 – continua)

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