Di fronte a ogni remake, rivisitazione o come fa tendenza dire reboot (ripartenza, in gergo informatico), ci si pone il dubbio se siano realmente necessari, se abbia senso riportare in auge qualcosa che il tempo ha superato. Nel caso di Conan the Barbarian, rifacimento del quasi classico Conan il barbaro diretto da Milius nel 1982, bisogna concedere al regista Marcus Nispel di aver adattato un personaggio celebre allo spirito contemporaneo dei tempi; il che, chiaramente, non è per forza un merito. Anzi, forse è il difetto principale.
La trama è più o meno fedele ai racconti che Robert E. Howard cominciò a scrivere dal 1932: il giovane e forzuto guerriero Conan, in cerca di vendetta personale dopo il massacro del villaggio e l’uccisione della famiglia, specie dell’amato padre con cui ha forgiato la sua spada, deve sconfiggere il potente Khalar Singh, che vuole diventare re di Acheron attraverso la maschera di un demone. Ad aiutarlo, la bella sacerdotessa Tamara.
Avventura fantasy mitologica, per intenderci del filone eroico o per meglio dire sword and sorcery (eroi in conflitto violento contro una varietà di cattivi, principalmente maghi, streghe, spiriti malvagi ed altre creature sovrannaturali) che ha portato a capolavori come Il signore degli anelli di Tolkien, sceneggiata da Thomas Dean Donnelly, Joshua Oppenheimer e Sean Hood che cercano di rendere appetibile al pubblico della Playstation l’universo pulp e superomistico dell’autore statunitense.
Centro, e purtroppo limite, del film è la riduzione di un personaggio mitologico, quasi un semi-dio, alla stregua di un eroe dei videogiochi, che combatte nemici, ammazza mostri, insegue donne e propositi bellicosi senza un vero cuore, ma solo per voglia di spettacolo, per mostrare ogni tipo di muscolo: non a caso la sequenza migliore del film, l’attacco degli uomini di sabbia, è un plagio evidentissimo di Prince of Persia.
E così si perde tutta la mistica di Howard, Milius o Frazetta, sostituita da una trivialità cinematografica che al posto del sesso e della libertà anarcoide degli originali mette una violenza tutto sommato schiava della contemporaneità.
Certo, nell’ambito del cinema muscolare, il film ha un suo perché: c’è il sangue, il fango, il ritmo (il duello rotante), ma non c’è la coesione, manca la regia, il collante dell’operazione. Nispel ci mette solo un po’ di tecnica e lascia il lavoro sporco a Jason Momoa, tanto convincente nella serie Game of Thrones quanto spaesato quando non deve impugnare la spada: vedere per credere la scena di sesso con la sacerdotessa.
Un Conan di poche pretese e ancora meno suggestioni: un’occasione persa. E che nessuno sentiva necessaria.