Tra i molti nomi coinvolti in questa produzione italo-tedesca, cè anche quello altisonante di Emir Kusturica, il regista serbo di film come Underground, Gatto nero gatto bianco e Papà è in viaggio daffari: cosa centra il vincitore di due palme doro con Mozzarella Stories, il primo lungometraggio di Edoardo De Angelis? Lo si capisce meglio guardando questo curioso racconto di mozzarelle e malavita che riesce a lavorare tra le pieghe dei generi e a gestire un racconto corale, ossia in due imprese in cui di solito i giovani registi italiani falliscono.
Il film vede al suo centro Don Ciccio D.O.P., invidiato produttore di mozzarella di bufala, che rischia di fallire sia per lesoso pizzo da pagare alla malavita, sia per la concorrenza dei cinesi che vendono ottima mozzarella a metà prezzo. Attorno a lui ruotano la figlia Sofia, che vuole smarcarsi dal matrimonio con Angelo, ancora innamorato della sua ex, e Dudo, silenzioso pallanuotista di origini gitane, passato a fare il lavoro sporco.
La sceneggiatura, scritta dal regista con Devor De Pascalis, Barbara Petronio, Leonardo Valenti e Pietro Albino Di Pasquale, gestisce senza troppe difficoltà e con minime sbavature gli intrecci e il gran numero di personaggi, raccontando un microcosmo in cui far specchiare lintero sistema economico italiano.
E questo parallelismo è evidente fin dallinizio, dove alla sfarzosa e opulenta festa datata 1999 si oppone il vento della crisi di qualche anno dopo, che permette al film di diventare una sorta di allegoria sul declino degli imperi italiani – economici e culturali -, quelli coltivati a suon di sfarzo e corruzione e che adesso si trovano a decadere senza dignità, vedendo nellestero e nei capitali stranieri gli unici mezzi di possibile sostentamento: e De Angelis, allevato da Kusturica nel suo festival serbo dedicato ai cortometraggi, racconta una realtà che si sta costruendo sotto i nostri occhi (sono di questi giorni infatti le notizie di aziende e investitori cinesi in procinto di acquistare fette del nostro debito pubblico) e gioca coi registri, alternando ironia e suggestioni noir, farsa e violenza, la realtà di Gomorra e lumorismo di Vincenzo Salemme.
E il regista vince la sua scommessa, per merito soprattutto di uno script che sa dare compattezza e spessore alle sue varie tracce (solo la sotto-trama di Dudo, lo “zingaro napulitano” come canta Angelo Tatangelo nel suo tormentone, con tanto di divagazioni oniriche, sembra di troppo) e si destreggia con disinvoltura negli stili differenti dei vari capitoli, ma anche di una regia che evita la piattezza di molti esordi grazie a decise dosi di eccesso, riuscendo in questo modo a catturare il coté kitsch e bizzarro facilmente reperibile negli usi e costumi campani.
Pratica senza dubbio rischiosa: ma se praticare l’eccesso significa far morire Giampaolo Fabrizio (il Bruno Vespa di “Striscia la notizia”) tra le bufale mentre declama un monologo shakespeariano col tono di un contemporaneo don Vito Corleone, o fare andare Luisa Ranieri verso la vendetta in abiti da fantino sadomaso, con in mano un nerbo dotato di un bufalo d’oro alla fine, allora lo accogliamo a braccia aperte e gaudenti.