Roberto Saviano e Lorenzo Jovanotti, con leclisse di Berlusconi, stanno riconquistando la loro diversità. Daria Bignardi per il milione di telespettatori (buon inizio) che lha seguita nel ritorno delle sue Invasioni barbariche su La7, li ha fatti partire faccia a faccia, senza di lei, e la mia impressione è proprio nata lì, vedendoli rilassati e tranquilli a parlare di politica, Italia, musica, minimi e massimi sistemi, e farsi (forse troppi) complimenti. Torno ai miei tweet di quella sera:
-Geniale @dariabig a fare un passo indietro dal libero annusarsi tv fra @robertosaviano e @lorenzojova.
-@lorenzojova era meravigliosamente ovvio a le #invasioni, come tutti quelli della sua generazione (troppa discoteca?). Ma si respira.
-Cè qualcosa di indecifrabile, nella purezza di @lorenzojova: ha ragione a sospettarne Bignardi a le #invasioni. Ma è moneta buona, credo.
-@lorenzojova è innocente culturalmente: lui ha ben chiari trucchi e misteri del consenso pop, ma li vive senza vecchi fardelli. postideologico. Dunque limpido dentro ma senza consapevolezza critica.
Ma so benissimo che la vera star laltra sera alle Invasioni barbariche era Roberto Saviano, pietra dinciampo ormai abituale fra destra e sinistra. Parto dal mio unico, sintetico tweet sulla questione.
-@RobertoSaviano ha un fondo di modernità postideologica che, dopo il colpo su colpo col centrodestra, riemerge.
Lascio da parte la lunga parte dellintervista dedicata dalla Bignardi ai giudizi del nostro sulla mutata situazione politica (allarmi sul possibile ritorno di B che trama nellombra compresi), mentre mi interessa di più il riemergere in lui, dopo sei mesi passati in America, del Saviano outsider che avevamo conosciuto allinizio. Il Saviano che sotto scorta (impostagli dalle procure) da quando aveva 26 anni ammette di vivere in maniera autistica, che parla dei ragazzi di Zuccotti Park come ragazzi che vivono la crisi come occasione per rischiare di più, visto che tutte le sicurezze sono saltate e che hanno il senso del merito. E prima, parlando con Lorenzo, confessa di scrivere con sotto musica hip-hop, Eminem in testa. E di stimare ancora la politica (è visione, è progetto), preoccupato che i ragazzi del 2012 la stiano abbandonando.
Pessimistico il suo sguardo verso la sua terra, il Meridione, ma per niente spocchioso su chi non la pensa come lui: “Voglio parlare agli altri, a quelli fuori dei nostri discorsi, quelli che si incontrano a far la spesa; in America dai ragazzi indignati ho imparato che conta più il potere delle persone, che le persone al potere”. So benissimo che per molti le parole del vecchio come del nuovo Saviano suonano insopportabili, presuntuose, inconsistenti e persino strumentali; eppure io continuo a pensare che l’averlo incasellato da quasi subito dentro lo schema del “finto perseguitato di sinistra col conto in banca” ne ha decretato santificazione e smisurato consenso giovanile. Mentre continuo a pensare che il giovane uomo, l’intellettuale, lo scrittore Saviano siano ancora tutti da incontrare e da capire.
D’altronde è da capirla, la nostra opinione pubblica: è viziata, malata, ritornata infante. Il caso del naufragio della nave Concordia ce l’ha dimostrato, a partire dalla tv. Prima quasi nulla, poi la corsa di Skytg24, il debutto vincente di Tgcom 24 e la fatica di Rainews; poi l’arrembaggio della tv generalista, che entro lunedì ha trasformato la vicenda nella nuova Avetrana. Dall’alba a notte fonda non si è salvato nessuno: la cronaca, gli esperti, le versioni della tragedia una sull’altra, le due figure antitetiche del fellone Schettino vs l’eroe De Falco al telefono, lo schierarsi manicheo dell’italiano medio, i superstiti in tournée su tutti i canali, starlette per prime. E ci ritrovaimo a oggi scarichi di interesse e già saturi, ora che si sta cominciando a capire cosa è successo e che c’è ancora tanto da fare. Ma non c’è verso: parte la canea e nessuno sa più fermarla. Da fuori il mondo ci guarda, ci giudica, ci sputtana. E noi, che prima davamo la colpa a B, adesso la diamo a un ignoto capitano di marina.
Ci vorrebbe Gaber, anzi ci vorrebbero Gaber e Pasolini insieme: sarcasmo, ironia tagliente e insieme senso tragico della storia e della poesia. Ma non ci sono più, e dunque ci resta solo quello che hanno pensato e scritto. Il regista Giorgio Gallione ha provato a cucirli insieme in Eretici e corsari sfruttando le diverse caratteristiche di due (ex) giovani attori come Neri Marcoré e Claudio Gioé. Ne è nato uno spettacolo semplicemente “politico”, come si sarebbe detto un tempo, uno spettacolo che ci legge dentro e fuori, con un Marcoré inedito nella sua veste di cantante e chitarrista e un Gioé attore di imprevista potenza e incisività. Scena nuda, due postazioni di leggii da sfruttare per ognuno dei protagonisti, alle spalle uno strepitoso quartetto d’archi con un flauto al posto del violino. Parole come pietre, che smontano i nostri conformismi e le nostre viltà esattamente come lo facevano appena scritte, e ci pungono ancora solo perché siamo, al massimo, diventati ancora peggiori.
I nostri padri, a fine Ottocento, almeno non erano cialtroni come noi. E non erano, come noi, dilettanti allo sbaraglio. Ho riascoltato alla Scala Le contes d’Hoffmann, opera mai in realtà finita del re dei grandi divertissement parigini di fine secolo: Jacques Hoffenbach. Strano effetto mi ha fatto stavolta, molto diverso dalla stagione in cui la scoprii, 1995, diretta da Riccardo Chailly. Allora spiccò la meraviglia assoluta dell’aria di Olympia, nel Primo atto, scolpita con musicalità miracolosa dalla grande Natalie Dessay. Stavolta, di questa modernissima partitura che mette in scena le ossessioni dello scrittore Hoffmann verso i suoi personaggi “neri”, mi ha colpito l’intensa musicalità del secondo e terzo atto, mitica barcarola compresa. La mano registica di Robert Carsen, poi, che parte insoddisfacente ma poi ti porta completamente dalla sua parte, ha funzionato anche qui (ma sembra un po’ il Don Giovanni appena visto).
Come la bacchetta di Aldo Ceccato, alla guida della Verdi di Milano, ha funzionato meravigliosamente nel farmi scoprire tre partiture mai ascoltate dal vivo di Antonin Dvorak: Lo Scherzo Capriccioso op.66, il Concerto per pianoforte op.33 (con uno strepitoso Benedetto Lupo) e la Sinfonia n.8. Folclore ceco? Vivere Dvorak così è un vecchio pregiudizio. La verità è che questo musicista così immerso nelle sue radici locali era un signor contrappuntista e orchestratore (fu anche viola in orchestra a Praga), ammiratore giovanile di Wagner e amico di Brahms nella maturità. Non è, la sua, musica del secolo che verrà, ma lo splendido fiore maturo di un’ Europa musicale al tempo del suo massimo splendore. E il tema cantato dai violoncelli nell’Allegro ma non troppo finale dell’Ottava era degno di Beethoven.
Visto poi il doppio Mario Monti tv per signore giornaliste: Lilli Gruber venerdi su La7, Lucia Annunziata domenica su Raitre. Assai più preparata e incisiva la seconda, va detto, e per questo assai considerata dal premier. Lilli più da Tg1, anzi da speaker del Tg1. Ma posso dire che l’interessantissimo, sobrio, preparato, perbenissimo prof. Monti comincia a tediare in tv. Calmierare, ridurre, ridimensionare, per cortesia.