Chi scrive non è mai all’altezza di chi muore, dice il professor Bernard a Jacques, riflettendo sulla distanza tra impegno intellettuale e quello politico. Il contesto in cui si svolge Il primo uomo, il nuovo film di Gianni Amelio (prodotto dalla Francia e realizzato con contributi quasi esclusivamente stranieri, a riprova dello stato della cultura cinematografica nel nostro Paese), è importante, ma non decisivo. lo sfondo pulsante di una storia di scavo e memoria.
Protagonista è appunto Jacques, famoso scrittore francese che torna in Algeria, suo luogo natale, durante le rivolte e i fermenti indipendentisti che diedero vita alla Battaglia di Algeri raccontata anche da Pontecorvo: qui Jacques ripercorre le sue memorie familiari e scolastiche e vive la sua nuova consapevolezza politica.
Basato sull’omonimo romanzo postumo di Albert Camus, trovato nelle macerie dell’auto in cui morì nel ’60, redatto dalla figlia e pubblicato con fatica solo 34 anni dopo, il film è un dramma della memoria, storico politico ma soprattutto intimo, scritto dallo stesso Amelio cercando di rendere attuale e stringente la lezione cinematografica di Rossellini, forse vero nume tutelare di una carriera tra le più folgoranti del cinema italiano (chi non li ha mai visti non si perda capolavori come Il ladro di bambini e Lamerica o grandi opere come Così ridevano).
Il film, nel suo passare continuo e fluido tra presente e passato, tra anni ’20 e anni ’50, mette in scena l’impossibile integrazione di francesi e algerini lungo più di 30 anni, raccontando il colonialismo strisciante di Parigi e dei suoi generali, il fascismo culturale delle istituzioni e della scuola e le figure che con umile dignità seppero ribellarsi alle costrizioni, se non quelle politiche, almeno quelle umane: il maestro citato in apertura che insegnò a Jacques/Camus che si può stare anche dalla parte dei barbari, la nonna severa fino alla cattiveria ma che illustra perfettamente chi sono i poveri, ossia coloro che per una moneta sono disposti a sporcarsi in una latrina (sequenza memorabile). E, soprattutto, la splendida figura di Catherine Cormery, madre luminosa dopo molti padri nel cinema di Amelio, dolente senza enfasi, preziosa, interpretata splendidamente da Maya Sansa e Catherine Sola.
È lei la stella polare (e su di lei infatti si chiude) di un film che vaga tra racconto di formazione – la parte adulta – e avventura attraverso la crescita – la parte bambina, quella più cara ad Amelio e quella più bella -, che scava nella memoria con tocco commovente attraverso i personaggi, i loro rapporti, i loro gesti: un cinema, e un film, che come si diceva guarda a Rossellini, attraverso una costruzione registica e immagini non più evidenti di quanto serva a comunicare allo spettatore, limpido fino a sfiorare la didascalia (i dialoghi politici possono apparire goffi), pudico e per questo toccante.
Amelio continua a raccontare la storia tramite i legami familiari, con le corde più intime dell’animo umano, e sa renderli visibili grazie a un tatto straordinario che si rispecchia nei suoi attori: di Sansa e Sola abbiamo detto, Jacques Gamblin e il suo piccolo alter ego Nino Jouglet sono immagini precise e volti tesi, Denis Podalydes è il sole di una speranza impossibile ma mai doma. Come mai domo è il desiderio di Amelio di realizzare un cinema grande, ampio, universale con gli attrezzi della geografia umana: anche stavolta, c’è riuscito.