Dare un nome alla crisi economica, alle paure, ai responsabili della rovina dellItalia. E usare un romanzo americano per farlo. Lambizioso e complesso obiettivo di Paolo Virzì, che ne Il capitale umano adatta lomonimo romanzo di Stephen Amidon, si traduce nel colpo vincente, forse, di una carriera, nel suo film più bello e coraggioso probabilmente, dopo il ritratto deludente di Tutti i santi giorni.
La vicenda comincia una notte, sulla provinciale di una città brianzola immaginaria, alla vigilia di Natale, con un ciclista investito da un Suv. Questo incidente cambierà il destino di due famiglie, quella di Giovanni Bernaschi, top rider della finanza al centro di un pericoloso affare dal rendimento miliardario, e quella di Dino Ossola, ambizioso immobiliarista sullorlo del fallimento e che per rifarsi decide di rischiare sul progetto di Bernaschi. A farne le spese, ovviamente, i figli e le compagne di una vita.
Scritto da Virzì con i sodali Francesco Bruni e Francesco Piccolo, Il capitale umano è un dramma familiare che diventa un noir di provincia, in cui la satira verso lItalia e la sua classe finanziaria e dirigente, verso la sua borghesia arida e avida, si fa spazio poco a poco in un affresco cupo di un Paese. Se lobiettivo del romanzo, datato 2004, era quello di sondare la classe media degli stati centrali degli Usa, mostrando in anteprima i prodromi del crollo, Virzì a quasi 10 anni di distanza gioca a carte scoperte e realizza una pellicola che chiama in causa direttamente i responsabili di quelle bolle finanziarie, quegli affaristi di varia risma e livello, corroborati dalla politica, che attraverso derivati e titoli tossici hanno scommesso sulla rovina dellItalia e hanno vinto, come rinfaccia la signora Bernaschi al marito.
Virzì guarda allanima squallida del Paese, a coloro che cadono sempre in piedi finché non hanno più terra su cui cadere, radicalizzando uno sguardo presente fin dalle prime sue opere, specie La bella vita, ed emerso grottesco in Tutta la vita davanti. Ne Il capitale umano lironia anche sarcastica che ha sempre caratterizzato il cinema di Virzì sembra esistere solo in filigrana, tra le pieghe di un racconto che passo dopo passo, mentre la struttura narrativa peculiare fa luce sul mistero (che non è una sorpresa, per cui può agire più in profondità) e si apre il respiro di un film che sa guardare oltre la materia che racconta, sa ritrarre gli italiani, non solo quelli settentrionali come una sterile polemica politica vorrebbe far credere.
E così Il capitale umano del titolo diventa la fatica della famiglia, delle persone che vivono intorno e dentro al disastro (metaforicamente gli italiani) senza riuscire a reagire, forse senza nemmeno accorgersi del disastro. Un film apocalittico a suo modo, in cui la luce viene dal coraggio degli attori giovani, soprattutto Matilde Gioli e Giovanni Anzaldo, coronamento di un favoloso lavoro sul cast – da Fabrizio Bentivoglio a Fabrizio Gifuni, dall’ottima Valeria Bruni Tedeschi alla più dimessa Valeria Golino – che conferma Virzì straordinario direttore d’attori. Ma in questo caso anche cupo cantore di un Paese, capace di rielaborare lezioni nobili ma spesso disattese, quelle dei Monicelli, dei Risi e dei Pietrangeli, per farne giusto campo d’osservazione del tempo.