Il film di Alan Rickman racconta la storia della costruzione del giardino della reggia di Versailles, con elementi un po' insoliti per il genere. La recensione di EMANUELE RAUCO

Capita raramente, ma questa volta, il titolo italiano di un film non fuorvia lo spettatore: rispetto all’originale “A Little Chaos” (Un po’ di caos), la versione nostrana Le regole del caos mette in luce il cuore del secondo film di Alan Rickman, a 17 anni dall’esordio con L’ospite d’inverno. Da una parte la formalità, il protocollo e il rispetto delle norme sociali e di corte, dall’altra la follia nel senso passionale e nel senso sociale del termine. 

Il film racconta la storia della costruzione del giardino della reggia di Versailles e del rapporto tra il progettista Le Notre e la giardiniera De Barra, i quali dovranno sfidare le difficoltà del progetto stesso e delle invenzioni ingegneristiche, le diffidenze di sesso rispetto a madame De Barra e il rapporto scomodo tra i due, sotto lo sguardo severo di Luigi XIV.

Rickman (celebre nel ruolo di Piton nella serie di Harry Potter o come rivale di Bruce Willis nel primo film di Die Hard, Trappola di cristallo) – su sceneggiatura di Alison Deegan – in questo dramma storico venato di melodramma non si limita solo alla dicotomia tra formalità e trasgressione in chiave di racconto, ma cerca di inserirla anche nella messinscena, provando a far irrompere nell’accademismo britannico del cinema in costume una brezza di imprevisto, toni più sporchi, scelte di regia più bizzarre. 

Per cui in una storia tipica di uomini e donne che cercano di sfidare le convenzioni, e che per buona parte si rifà alle convenzioni del cinema british come la perfetta ricostruzione storica e ambientale, la cura della messinscena, i sentimenti soprattutto quelli inesplosi che segnano la narrazione, Rickman si diverte a far dirompere piccole cariche di bizzarria, di umorismo soffuso (gustoso l’incontro in incognito tra il re e Sabine), di inquadrature fuori contesto, di personaggi sopra le righe (il solito Stanley Tucci bisessuale). Ci riesce solo a metà il regista, finendo per appesantire il ritmo mano a mano che il racconto procede e perdendo la rotta verso il finale, superfluamente tragico e infarcito di toni stridenti e flashback inutili.

Ma sono difetti che si possono sopportare, seppure incrinano il giudizio del film, soprattutto alla luce del brio che qua e là filtra dalle prove degli attori, che come da tradizione sono impeccabili; ma sono soprattutto le attrici a colpire l’occhio: come una Kate Winslet di alto livello (e non è affatto una novità) e una sorprendente Helen McRory nei panni di Madame Le Notre.

Ma sono difetti che si possono sopportare, seppure incrinano il giudizio del film, soprattutto alla luce del brio che qua e là filtra dalle prove degli attori, che come da tradizione sono impeccabili; ma sono soprattutto le attrici a colpire l’occhio: come una Kate Winslet di alto livello (e non è affatto una novità) e una sorprendente Helen McRory nei panni di Madame Le Notre.