Tratto da un suo stesso libro, Ferzan Ozpetek porta in sala un film girato nella sua terra natale, che non sembra però essere riuscito bene. EMANUELE RAUCO ci spiega perché
L’elemento autobiografico nel cinema di Ferzan Ozpetek è sempre stato sottinteso, evidente, ma nascosto nei dettagli. Se dopo 20 anni di carriera, il regista sente la necessità di tornare a girare in Turchia, terra natale, forse ha voglia di mettere in scena più direttamente i suoi sentimenti, la sua vita (“Gli scrittori attraverso i personaggi parlano sempre di loro stessi”, si dice nel film): e così sulla scorta di un libro eponimo nasce Rosso Istanbul, nuovo film del regista italo-turco.
La trama vede protagonista un editor, apolide, fuggito dalla Turchia per vivere in Europa, che torna a Istanbul per aiutare un suo amico, regista di successo, a completare la propria autobiografia; ma una volta arrivato vede l’amico scomparire misteriosamente, lasciandolo a dover gestire i fili pendenti della sua vita, come una donna bellissima e distante, un altro amico poco raccomandabile, una famiglia non facile.
Ozpetek scrive con Gianni Romoli e Valia Santella un dramma raffinato e intinto in una vaga atmosfera noir che modifica nella struttura e nei meccanismi narrativi il romanzo, dando l’impressione di aver mescolato elementi tipici del regista e situazioni relativamente nuove o perlomeno rivestite di altri abiti. Come molti film del regista, Rosso Istanbul è un’opera di fantasmi e presenze, di persone che scompaiono ma che restano sospese dentro gli ambienti e dentro i personaggi che restano, come se i ricordi, i familiari e gli amici, i luoghi in cui abbiamo vissuto fossero una memoria che continua con cui è impossibile fare i conti.
Ozpetek tenta anche di aggiungerci un elemento politico – a lui pochissimo conforme – per non dare l’impressione di un’Istanbul distante, invisibile, irreale, ma il vero limite del suo film è nell’ispirazione: partire da un proprio romanzo e da un ritorno così atteso e forse tormentato la limita, la ingabbia, rende questo un film “à la” Ozpetek più che “di” Ozpetek.
A partire da una messinscena piatta, spenta, in cui gli insistiti primissimi piani spengono qualsiasi forza delle scene, dei décor, dei luoghi reali della città, fino a dialoghi poco credibili (forse, sulla carta funzionavano meglio) che il brutto doppiaggio rende ancora più enfatici, Rosso Istanbul è un film tanto cercato e atteso dal regista da non riuscire a venire fuori, come una festa la cui vigilia è stata troppo cercata e mitizzata: ne è prova il finale, o meglio i finali che Ozpetek procrastina stancamente per gli ultimi 15 o 20 minuti in attesa di trovare quello giusto.
La leggerezza, anche frivola o inopportuna ma comunicativa con lo spettatore, delle sue opere migliori, anche quelle drammatiche, lascia il passo a un tocco narrativo tanto pesante quanto incerto e a scelte di stile e regia molto deludenti (come le musiche spesso fiore all’occhiello dei suoi film, non qui) che attori imbambolati non ravvivano mai. Manca a Rosso Istanbul quella scintilla di vitalità che dava un senso anche ai suoi film più brutti, come se il dover tornare a casa, a raccontare di se stesso scisso in due personaggi, lo avesse frenato. E il rosso della città fosse il colore della paura interiore e non della passione.
