Il film di Drew Goddard si ispira molto al cinema di Tarantino e studia, analizza e usa il genere noir. Con un risultato non molto brillante nel complesso. EMANUELE RAUCO

Parafrasando Quentin Tarantino in Pulp Fiction, il secondo film da regista di Drew Goddard potremmo chiamarlo “El Royale con formaggio”. Perché 7 sconosciuti a El Royale richiama direttamente l’ispirazione al regista di Knoxville, vi guarda sfacciatamente per realizzare un film che gioca tra codici di genere e allegoria storica.



I 7 sconosciuti del titolo italiano (in originale si parla di brutti momenti, bad times) sono i personaggi che si ritrovano nel misterioso albergo al confine tra California e Nevada, ognuno con un proprio mistero e ognuno quindi con una propria declinazione del genere thriller, che si scontreranno nel gran finale grazie all’arrivo del gran cattivo. 



Evidentemente Goddard, anche sceneggiatore e produttore, ha un’ossessione per alberghi o baite piene di scompartimenti, camere segrete e dispositivi di ripresa e controllo, così come ha una tendenza classificatoria nel trattare i generi: si può dire in un certo senso che 7 sconosciuti a El Royale faccia con il noir ciò che Quella casa nel bosco faceva con l’horror. Ovvero lo studia, lo seziona, lo scompone e ricompone, lo analizza, come a volerne fare una sorta di guida al genere, e quindi dal suo podio di autore dandogli la possibilità di giocare con ognuno dei suoi filoni ed esempi.



Il film di rapina e la caccia al tesoro, il thriller cospirativo e la fuga dal passato fino al gran finale vicino all’orrore e al grand guignol: il tutto su un impianto sfacciatamente tarantiniano – la scenografia teatrale, la divisione in capitoli, le canzoni d’epoca, la patina vintage, i lunghi dialoghi e le numerose digressioni alternate a scoppi di violenza improvvisa e incongrua, persino una sorta di Charles Manson (ovvero il centro del prossimo film di Tarantino) tra gli “hateful seven”.

Ma Goddard, proprio per echeggiare il maestro, mentre enumera i tipi di noir e ne elenca le variazioni, traccia un superficiale affresco storico, perché si scrive El Royale ma si legge Watergate, tra i “mostri” dell’albergo si ritrovano Nixon, Kennedy e appunto la famiglia Manson, e come il geniale Quentin si riserva il lusso di riscriverla e reinventarla, di farla confluire proprio al centro dell’America, al confine tra due mondi.

Di Tarantino e dello stesso Goddard però restano solo i meccanismi, senza tensione, senza grazia, senza senso del divertimento o dello spettacolo, se non isolato in alcune belle sequenze. 7 sconosciuti a El Royale è una serie di ingranaggi che isolati sono bel cinema, ma che non si coordinano quasi mai, che restano frammenti incapaci di essere un vero affresco sul genere o sull’America. Quello di Goddard è un oggetto ottimo per l’analisi, quindi, più che un ottimo film.